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mercoledì 31 agosto 2022

M5s, Conte: “La regola del doppio mandato vale anche per me. Ci batteremo perché sia adottata da tutti i partiti”

“Da noi vige una regola: per noi il servizio a favore dei cittadini è un servizio che si può fare ovunque, se ci sono cariche elettive ci siamo dati la regola del doppio mandato e l’abbiamo rispettata, per tutelare voi (i cittadini ndr.), per evitare che la politica possa diventare un affare privato di tutela del destino personale di chi vi deve rappresentare. Questa regola vale anche per me“. Così Giuseppe Conte, leader del M5s, intervenendo in piazza a Chieti, per un evento elettorale. “Per noi la politica è un servizio a favore dei cittadini. E le cariche elettive – avverte – devono avere un mandato temporale preciso, devono essere temporanee”. “Non possiamo tollerare che il M5S diventi una forza come le altre dove ci sono ormai professionisti della politica specializzati nella gestione del potere, noi vogliamo essere specializzati nella tutela dei vostri interessi”, continua dal palco. Quindi conclude: “Ci batteremo perché questa regola, così rivoluzionaria, sia adottata da tutti i partiti”.

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Pomezia, cade il sindaco M5s Zuccalà: decisive le dimissioni di 4 consiglieri ex grillini insieme all’opposizione

L’amministrazione M5s di Pomezia ha concluso ufficialmente la sua esperienza dopo nove anni. Quattro consiglieri ex grillini, confluiti nel gruppo Pomezia Attiva, si sono dimessi insieme a tutti i consiglieri di opposizione, sfiduciando il sindaco Adriano Zuccalà. Cade così l’ultima amministrazione del Movimento in provincia di Roma. Il primo cittadino si è sfogato duramente contro i quattro, eletti con i Cinque Stelle: “Chi è che deve chiedere scusa ai cittadini? È bastato un gesto vigliacco, nelle segrete stanze di un notaio, da parte di persone che non sanno nemmeno cosa voglia dire rappresentare una città”, scrive Zuccalà definendoli “ectoplasmi della politica” che “hanno professato per settimane la trasparenza” e poi “evitato l’unico confronto democratico possibile, il Consiglio Comunale”. E accusa: “I 4 consiglieri eletti con i voti del Movimento 5 Stelle si lasciano colpevolmente strumentalizzare da un’opposizione che fino a ieri attaccavano a testa bassa e preparano con loro le liste per le prossime elezioni”.

Per Stefano Mengozzi, capogruppo Pd a Pomezia, e Patrizia Prestipino, deputata Pd e candidata a Roma nel collegio Eur, Ostia, Pomezia, “la colpa è certamente del sindaco che non è stato capace di tenere la maggioranza compatta, che ha avuto in questi anni molti consiglieri e assessori dimissionari e oggi 4 ex 5 stelle hanno firmato insieme all’opposizione”. Per il gruppo di Pomezia attiva invece se “c’è qualcuno attaccato alla poltrona è il sindaco, che ha rifiutato sempre e comunque di ammettere le proprie responsabilità per i gravi errori commessi nella gestione del gruppo politico, che conta 6 consiglieri dimessi e 4 fuoriusciti a fronte dei 15 che furono eletti, più un importante assessore dimissionato”. E ancora: “Si è addirittura permesso di dichiararci fuori dal M5S la goccia che ha fatto per noi traboccare il vaso e che ci ha portati ad abbandonare il suo gruppo il 31 luglio scorso”.

“Silvio Piumarta, Marco De Zanni, Iolanda Mercuri e Zaira Conficconi chinano il capo e si mettono al servizio del centrodestra e del Partito Democratico. Servi dell’ambizione di chi vorrebbe riprendersi una città che il Movimento 5 Stelle ha salvato dall’orlo del baratro scongiurandone il dissesto finanziario e portandola a essere un modello virtuoso – attacca Zuccalà – Raccolta differenziata porta a porta e corretta gestione del ciclo dei rifiuti, reperimento di fondi regionali, nazionali ed europei, amministrazione oculata delle risorse e una nuova visione di città sostenibile e a misura di cittadino sono risultati sotto gli occhi di tutti e che tutti riconoscono come pilastri della nostra azione di governo”.

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lunedì 29 agosto 2022

Sondaggi, Swg: Fratelli d’Italia sfiora il 25% e stacca il Pd, centrodestra avanti di 17 punti. Il M5s cresce più di tutti: è all’11,6% (+1,2%)

Fratelli d’Italia cresce ancora e arriva al 24,8%, distanziando il Pd che perde terreno. Nel centrodestra resta stabile la Lega e cala Forza Italia, mentre il Movimento 5 stelle guadagna l’1,2% in tre settimane e arriva all’11,6%. A dirlo è il sondaggio Swg realizzato per il Tg La7 di Enrico Mentana, realizzato su 1.200 soggetti nel periodo 24-29 agosto. Il partito di Giorgia Meloni sale di un punto tondo rispetto allo scorso 8 agosto (era al 23,8) ed è stimata prima forza a 2,5 punti di distanza dai dem, che specularmente calano dal 23,3% al 22,3%. Il Carroccio rimane al 12,5%, mentre lascia un punto per strada anche il partito di Silvio Berlusconi, che cala dall’8% al 7%.

La crescita maggiore però la fanno segnare i pentastellati di Giuseppe Conte, che schizzano dal 10,4% all’11,6%. Il cartello Azione-Italia viva (non ancora esistente alla data dell’ultimo sondaggio) è stimato al 6,8%, mentre tra le forze minori crescono la lista Verdi/Sinistra italiana (4%, +0,3%) e Italexit di Gianluigi Paragone (3,4%, +0,1%). “Noi moderati” è dato all’1,6%, +Europa all’1,5%, Impegno civico di Luigi Di Maio all’1,2% (-0,2%). Conseguentemente, la coalizione di centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati) resta stabile al 45,9%, con il centrosinistra distanziato di quasi 17 punti, al 29% tondo.

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L’Italia non è un Paese di destra, ma ha una sinistra immatura: una grande opportunità per il M5s

Da anni gira questo assunto per cui l’Italia è un paese di destra. Come se i paesi fossero di destra o di sinistra… neanche le persone lo sono costitutivamente, figuriamoci le nazioni. Espresso da D’Alema per giustificare l’incapacità di tutta una leva di sinistra, ora rimasticato e sputacchiato un po’ da tutti.

In questo assunto c’è una inversione tra soggetto e oggetto, proviamo a rimetterlo in piedi: l’Italia ha una destra matura e autonoma e una sinistra adolescente (sinistra radicale) o subalterna (Pd, o sinistra Pd). Non è l’Italia ad essere di destra, non sono gli italiani e le italiane ad esserlo: è la destra ad avere un profilo politico chiaro, al contrario delle sinistre. La destra ha un suo programma concreto e stabile (meno tasse, meno vincoli – sociali, ambientali, morali, burocratici – ai profitti, conservatorismo sociale e culturale, conformismo, zero autonomia dei soggetti – no reddito di cittadinanza, no riconoscimento alle difformità, alle differenze, alle anomalie) con differenziazioni interne anche molto ampie (federalismo della Lega contro nazionalismo post-Msi, edonismo berlusconiano contro moralismo fondamentalista cristiano, giustizialismo leghista e postfascista contro garantismo d’élite berlusconiano, etc).

La sinistra radicale invece surfa sui temi (tutti giusti): oggi aboliamo i jet, ieri patrimoniale, domani settimana cortissima, dopodomani scuola superiore unica… uno slogan al giorno (tutti giusti ripeto) senza capacità di insediamento, di costruzione stabile, di possibilità di riconoscersi in un programma (la gente ha scordato la patrimoniale oggi, domani scorda i jet, dopodomani la settimana corta…) né in un nome, visto che le stesse 5 persone cambiano nome a partiti e cartelli ogni 18 mesi. La gente non si ricorda quei nomi né capisce perché gente che dice più o meno la stessa roba (altro che federalisti contro nazionalisti) debba stare in tanti micropartiti uno contro l’altro. Altro che paese di destra: la gente è normale, vuole maturità per farsi governare, in quello spazio vede adolescenza.

Per il Pd il problema è opposto: troppa maturità, troppa responsabilità, senilità. Si è dato il compito, anche nobile in un paese costitutivamente instabile politicamente, di stabilizzare sempre e comunque il sistema tramite governi tecnici, e anche quando ne fa di politici, questi hanno programmi da tecnici (chi erano i ministri economici di Prodi?). Le parole vuote europeismo (sono europeisti Macron, Merkel, Sanchez, i conservatori olandesi e i progressisti svedesi… il Pd con chi sta di questi? Risposta: con tutti e con nessuno, ma somiglia più a Merkel che a Sanchez) e riformismo (la riforma Gelmini è una riforma, infatti per un pelo non è coalizzata col Pd, e se non lo è non è per volontà del Pd, la roba della Lorenzin sono riforme, il RdC è una riforma… con chi sta il Pd? Risposta: con tutte queste riforme. E con nessuna. Ma abolisce più facilmente il RdC che la scuola di Gelmini).

Il Pd è praticamente una istituzione pubblica, non un partito di una parte di società, è un organo di garanzia come il presidente della Repubblica (infatti sono tutti del Pd). Funzione nobile, ma istituzionale e non politica. Non sta nel sangue vivo del paese, nel sistema nervoso della gente, nei movimenti profondi nel sociale. È stabile nei palazzi istituzionali che stabilizza e occupa stabilmente.

Non è la gente o il paese a essere di destra. È la destra ad essere adulta e autonoma, al contrario di sinistre subalterne o immature.

Il M5S che ha costruito la sua fortuna sul non schierarsi tra destra e sinistra, sul dichiararsi oltre questa divisione novecentesca che però si è ripresentata in una nuova polarizzazione, ha davanti la difficoltà ma anche la grande opportunità storica di riprendere e rinnovare non tanto lo spazio, ma proprio la funzione storica della sinistra.

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Grillo: “Dobbiamo estendere il diritto di voto ai sedicenni. Il mondo appartiene a loro”

Beppe Grillo rompe il silenzio e interviene nel dibattito di questa campagna elettorale. Con un suo post sul suo blog torna a parlare di quella generazione lasciata fuori dalla competizione elettorale: sono i 16enni, coloro che possono “lavorare, pagare le tasse”, ma “non possono votare”, scrive il fondatore del Movimento 5 stelle.

Il suo intervento inizia con una lista di scienziati e delle loro scoperte avvenute molto prima dei 18 anni: dal matematico e fisico Pascal e il suo famoso teorema scritto a 16 anni, a James Clerk Maxwell, altro matematico, che a 14 anni “scrisse sulle curve ovali e quelle aventi molteplici fuochi”, fino ad arrivare all’italiano Valerio Pagliarino che “ha vinto nel 2016 il premio Ue giovani scienziati della Commissione Europea”. “L’elenco è lunghissimo”, continua Grillo: “sono giovani, brillanti, intelligenti e liberi. Ma non possono votare”.

L’assunto di base è uno: “Il mondo appartiene a coloro che lo modellano”. E così Beppe Grillo ricorda come l’Italia sia “il Paese con la popolazione più anziana d’Europa”, che “dal 1946, anno in cui votarono per la prima volta le donne”, non ha “mai messo in discussione le regole“. Così i giovani, anche quelli che possono votare, “non lo fanno perché non credono più nei politici“. “Ragazze e ragazzi sospesi, già ampiamente maturi e preparati vengono tenuti fuori dalle scelte politiche“, continua il garante del M5s che elenca una serie di quesiti: “Che mondo li aspetta con le decisioni folli fatte dalle generazioni che li hanno preceduti? Generazioni che probabilmente malediranno in futuro? Se un sedicenne è “immaturo” come giudicare maturi o saggi coloro che investono in armi, distruggono l’ambiente, scatenano le guerre, che gli sottraggono il diritto alla pensione e al lavoro? Se un 16enne non può prendere una decisione per il proprio futuro, perché può farlo chi questo futuro non lo vedrà?“.

Una vera e propria “battaglia generazionale” che il M5s “porta avanti da anni”, sottolinea. Grillo, infatti, ricorda il voto del Movimento nel 2013 “per l’estensione del voto ai sedicenni nella riforma della legge elettorale europea” e la presentazione in Parlamento di “una mozione di riforma costituzionale e istituzionale per estendere il voto anche ai referendum popolari sulla modifica di Governo e di Stato”. Proposte bocciate. Così il fondatore del Movimento 5 stelle torna a chiedere l’estensione del diritto di voto ai sedicenni. Un argomento, questo, rilanciato più volte anche dal segretario del Pd, Enrico Letta, ma che fino a oggi non è mai stato concretizzato. “Ora, è arrivato il momento di ascoltare le nuove generazioni, Il mondo appartiene a loro!”, conclude Beppe Grillo.

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sabato 27 agosto 2022

Elezioni, le proposte per la scuola del M5s tra comunità energetiche ed educanti

Concordo con quanto afferma Tuttoscuola, che da 40 anni cura l’informazione educativa italiana con il suo ricco sito online e con la sua rivista cartacea mensile. I programmi sulla scuola di ogni partito rischiano di essere un libro dei sogni, non solo in queste elezioni ma da sempre. Secondo le stime dello studio sono necessari tra i 12 e i 15 miliardi di euro all’anno per mantenere tutte le promesse, una cifra a cui ci siamo avvicinati solo durante gli stanziamenti del governo Conte II che ha affrontato la pandemia da Covid-19, scegliendo di rilanciare gli investimenti nella scuola. Nel 2020 si avvicinammo alla spesa di 9 miliardi di euro, riducendo le classi pollaio a sole 9000 unità grazie ad organico aggiuntivo e interventi di edilizia scolastica ad hoc. Caduto quel governo il problema delle classi sovraffollate è andato in soffitta con Draghi e le scuole sono tornate ad avere circa 14mila classi sovraffollate, secondo le stesse stime della rivista Tuttoscuola.

Il M5S e Giuseppe Conte hanno già dimostrato con i fatti, prima di qualsiasi programma elettorale, che la volontà è stata di aumentare le risorse nella scuola finché il lavoro non è stato interrotto dal governo Draghi. L’impegno economico è tuttavia più cospicuo e necessita di una vera rivoluzione delle regole europee del patto di stabilità. È qui che Tuttoscuola e le altre testate che si occupano di istruzione troveranno la vera novità nel programma integrale, in via di pubblicazione, che ho redatto insieme ai membri del comitato Istruzione e cultura costituito da Giuseppe Conte.

In generale, è la spesa per l’educazione che in Italia resta ridicola. Secondo i dati di Eurostat siamo il Paese europeo che, in percentuale rispetto alla propria spesa pubblica, investe appena l’8% in educazione posizionandosi all’ultimo posto in classifica in Europa. Una vera contraddizione per un Paese che ha ricevuto i maggiori fondi per un programma di Ripresa e Resilienza. Sebbene per i fondi del Pnrr abbiamo stabilito una percentuale rilevante per il comparto, questi fondi, se non accompagnati da finanziamenti in conto capitale nazionali e strutturali, rischiano di cadere nel vuoto. Quindi, per incidere realmente nella spesa dell’istruzione sul Pil, il futuro governo dovrà lottare per ottenere all’interno della riforma del patto di stabilità quella flessibilità di spesa in conto corrente per l’istruzione. Parliamo di spesa ordinaria che serve per aumentare gli stipendi e il personale necessario a sdoppiare le classi troppo affollate, ridurre le reggenze dei dirigenti e aumentare il personale Ata con l’aumento del numero di classi. Temi ampiamente sviluppati nel programma integrale del M5S.

Il comitato Istruzione e cultura del M5S vuole istituire una dote educativa in sinergia con i patti di comunità educanti, varati durante il Conte II, destinata principalmente alle scuole di quartiere e di periferia che, più di tutte, devono garantire servizi educativi e culturali personalizzati per la fascia di alunni svantaggiati per contrastare la dispersione scolastica. Il tutto in stretta collaborazione con gli uffici delle politiche sociali degli enti locali. Le comunità educanti possono diventare una misura strutturale di contrasto alla povertà educativa e culturale, con esperienze dirette di outdoor, con le discipline sportive, le competenze artistico-creative, educazione civica e professionale. Per promuovere la cultura del benessere scolastico il M5S vuole creare equipe di psicologi, educatori e pedagogisti a scuola che, dismettendo la loro funzione a sportello, diventeranno figure strutturali a supporto della comunità scolastica, in un momento storico dove i problemi individuali di depressione, violenza, di relazione si sono acuiti.

Con i 2,2 miliardi del Pnrr e i fondi del RePower EU il comitato Istruzione e cultura ha proposto la costituzione di Comunità energetiche, sfruttando gli oltre 8000 tetti degli istituti scolastici e ciò non può che incidere in una nuova didattica e formazione diffusa sui temi della transizione ecologica. Abbiamo previsto il tempo prolungato come offerta standard su tutto il territorio nazionale, investimento in mense ed educazione alimentare, con l’aumento di laboratori che utilizzino materiale didattico innovativo, frutto delle esperienze pedagogiche più avanzate secondo la carta di avanguardie educative di Indire.

Ci impegniamo con la massima determinazione a potenziare il tempo pieno in tutto il territorio nazionale, amplificando l’offerta outdoor ed esponenziale pomeridiana e rendendo gratuito l’intero percorso scolastico (da 0 a 18 anni) per gli studenti provenienti da famiglie con redditi medio-bassi. Le strutture scolastiche, universitarie e altri spazi pubblici e privati vanno messi al servizio di un’offerta di lifelong learning con finalità di reskill e upskill, a partire dalle ore 17.00. Il tutto con finalità culturali e sportive da svolgere nel tempo libero per tutte le fasce di età. Tutto questo sarà possibile se nel Paese si muoverà anche un movimento culturale in grado di lottare per la riforma del patto di stabilità, che chieda l’esclusione della spesa corrente per l’istruzione. Dopo le cure dimagranti imposte da Berlusconi, Tremonti e Gelmini, ce lo meritiamo.

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venerdì 26 agosto 2022

Alla festa dell’Unità di Bologna tra i militanti che nel 2021 applaudivano Conte: “Delusi dalla non alleanza. Ma ci sono ancora punti in comune”

Un anno fa Giuseppe Conte riceveva un’ovazione dai militanti PD alla festa dell’Unità di Bologna e cantava Bella Ciao insieme ai volontari dell’Anpi. Oggi il clima è cambiato dietro agli stand della Festa Dem. “Se venisse qui probabilmente riceverebbe qualche fischio” scherza, ma non troppo, una delle storiche volontarie allo stand di Savena dove si friggono le crescentine. Tra i militanti Dem si percepisce una delusione nei confronti del leader del Movimento 5 stelle. “Io ci credevo, pensavo che ci fossero per davvero prospettive per una nuova alleanza” racconta Stefano che un anno fa cantava Bella Ciao insieme all’ex premier. Oggi a cantare quella stessa canzone è arrivato il segretario del Pd Enrico Letta che ha inaugurato la festa presentando la nuova campagna: “Scegli”. O il rosso o il nero. Le altre opzioni? “Non ci sono altre opzioni possibili, tutte le altre opzioni aiutano il centrodestra” ha spiegato dal palco dopo aver ricevuto l’abbraccio dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi. L’alleanza Pd-M5s è definitivamente morta? “Per un po’ si” commentano i militanti che però sperano che dopo il 25 settembre i giochi si possano riaprire ripartendo dai temi in comune. Lavoro e diritti civili in primis. “Speriamo di ricompattarci ma come diceva mio nonno bisogna essere in due ad essere convinti”.

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Europarlamento, un eletto su cinque prova il “salto” a Camera o Senato: tra loro c’è Calenda. Che in tre anni a Bruxelles non ha lasciato traccia

Sono stati eletti per rappresentare l’Italia al Parlamento europeo, incarico per cui percepiscono una retribuzione netta di 7.300 euro al mese più le indennità di viaggio, di soggiorno, di spese mediche e di fine mandato. Ma a molti la poltrona sta stretta: quasi un quinto di loto vorrebbe cambiarla con un più comodo scranno romano. Sono 13 su 76, infatti, gli eurodeputati italiani in carica candidati alle elezioni del prossimo 25 settembre, nonostante abbiano di fronte ancora quasi due anni di mandato a Bruxelles (la scadenza è a maggio 2024). L’unica delegazione che resterà intatta in ogni caso è quella del Movimento 5 stelle, che non ha inserito in lista nessuno dei propri rappresentanti. Tutti gli altri partiti, invece, ne schierano uno o di più: e tra loro ci sono nomi di primissimo piano, a partire da Silvio Berlusconi, il più assenteista di tutta l’Eurocamera. Ma pure Antonio Tajani, Eleonora Evi, Raffaele Fitto, Simona Bonafé e Caterina Chinnici (aspirante governatrice della Sicilia) e soprattutto Carlo Calenda: il segretario di Azione – anche se può sfuggire – è parlamentare europeo dal maggio 2019, quando fu eletto con record di preferenze nella lista del Pd, salvo mollare il partito dopo due mesi e in seguito (nel 2021) cambiare anche famiglia politica comunitaria, traslocando dal gruppo dei Socialisti&Democratici ai macroniani di Renew Europe. Se però a parole Calenda è un fervente crociato dell’Europa e dell’integrazione europea, di fatto ha dedicato tutte le sue energie alla politica e alle candidature nazionali (prima a sindaco di Roma e adesso a senatore) trascurando in allegria l’incarico per cui viene stipendiato.

A tacer d’altro basterebbe guardare Twitter: sul social dove l’ex ministro trascorre gran parte delle sue giornate, i riferimenti al lavoro da europarlamentare sono praticamente assenti. E il motivo si capisce verificando la sua attività istituzionale. Va detto subito che il metro di giudizio non può essere – come per Camera e Senato – la presenza alle votazioni: da marzo 2020 a marzo 2022, infatti, a causa del Covid è stato in vigore un sistema da remoto che ha permesso ai deputati (o ai loro assistenti) di votare direttamente dalla poltrona di casa, senza scomodarsi con aerei e trasferte. Una rivoluzione che ha drogato le statistiche: basta pensare che persino Berlusconi, che a Bruxelles è comparso una sola volta in tutta la legislatura, può vantare un rispettabile 58,9% di partecipazione. Così, durante la campagna per le comunali di Roma, Calenda poteva farsi bello dicendo di avere “oltre il 90% di presenze ai voti“, nascondendo però che questa percentuale lo piazzava (al 28 settembre 2021, ultimo dato reperibile) al 71° posto su 75 eletti italiani e al 622° sui 705 totali. Tramontato lo “smart working”, il bluff è venuto a galla: il segretario di Azione non si è presentato nemmeno al decisivo voto sulla tassonomia verde del 6 luglio scorso, nonostante fiumi di parole e tweet sulla necessità di includervi anche gli investimenti sull’energia nucleare. E si è fatto bacchettare anche da un suo compagno di gruppo, l’eurodeputato di Italia viva Nicola Danti: “La politica va fatta nei luoghi dove si decide e si incide, non su Twitter. Altrimenti si fa il gioco dei populisti”, gli scriveva.

Per avere un quadro realistico dell’impegno è utile invece guardare la voce “attività parlamentari principali” sulla sua pagina da deputato. Ne risulta che in 170 sedute plenarie del Parlamento europeo in questa legislatura, Calenda è intervenuto in Aula – oralmente o in forma scritta – appena sei volte. L’ultima? Il 18 maggio 2021, un anno e tre mesi fa, prima di lanciare la propria corsa a sindaco di Roma. L’unica altra “attività principale” del capo della lista di centro è una relazione a una proposta di risoluzione, cioè un atto di mero indirizzo nei confronti degli Stati membri, senza valore normativo (come invece hanno i regolamenti e le direttive). Per fare alcuni paragoni, Brando Benifei – il capodelegazione del Pd – ha all’attivo 92 interventi in Aula, una relazione su una direttiva e una su un regolamento, altre sei relazioni da “relatore ombra” (una sorta di relatore di partito) e dieci interrogazioni orali. Antonio Tajani – vicepresidente del Partito popolare europeo e già presidente dell’Eurocamera – ha 59 interventi in Aula, 13 pareri in quanto relatore, 42 proposte di risoluzione e due interrogazioni orali. Carlo Fidanza (capodelegazione di FdI) ha 46 interventi in Aula, otto relazioni e 11 pareri da relatore ombra, 108 proposte di risoluzione e tre interrogazioni orali. Tiziana Beghin (capodelegazione del M5s) 34 interventi in Aula, dieci proposte di risoluzione e sei interrogazioni orali.

Insomma, finora il leader di Azione non ha lasciato quasi traccia della sua presenza all’Eurocamera, come ricordano gli eletti del Movimento 5 stelle – Tiziana Beghin, Fabio Massimo Castaldo, Laura Ferrara, Mario Furore e Sabrina Pignedoli – in un comunicato in cui rivendicano di essere stati gli unici a non tentare di usare Bruxelles come un autobus per Roma: “I nostri eletti restano fedeli al mandato elettorale ricevuto nel maggio 2019 e continueranno il loro lavoro al Parlamento europeo fino alla fine della legislatura“, scrivono. “Purtroppo, invece, per gli altri partiti è proprio il caso di dire: “prendi i voti e scappa”. Fa scalpore in particolare il caso Calenda, che ha trascorso più tempo nelle sue varie campagne elettorali che presente a lavorare per l’Italia a Bruxelles e Strasburgo. A questo “fuggi fuggi” vergognoso e irrispettoso degli impegni presi durante la campagna elettorale europea, il Movimento 5 stelle contrappone coerenza e risultati concreti. Grazie a Giuseppe Conte abbiamo ottenuto 209 miliardi di fondi europei per il nostro Paese, molti dei quali a fondo perduto, un risultato storico che si può raggiungere solo se lavori sodo, sei credibile e autorevole, tutte qualità che mancano alla classe politica. Il prossimo 25 settembre i cittadini si ricorderanno chi è dalla loro parte”, concludono.

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giovedì 25 agosto 2022

Angelo Vassallo, la candidatura del fratello Dario è una scommessa che si può vincere

La candidatura di Dario Vassallo con il Movimento 5 Stelle per la Camera dei deputati nel collegio uninominale di Eboli-Cilento è un evento di particolare rilievo per il significato che rappresenta nel territorio, ma anche più in generale nel paese. Dario è il fratello di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore di Pollica, ucciso il 5 settembre 2010 da mano ancora ignota, seppure le lunghe e tortuose indagini dopo dodici anni sembrano giunte alla fine a scovare i colpevoli, con il rinvio a giudizio di nove co-imputati tra cui tre uomini dei carabinieri.

L’omicidio del fratello Angelo è stato fin da subito per Dario e per il fratello Massimo, il suo alter ego, motivo di un grandissimo dolore, trasformatosi in un impegno straordinario per la verità e soprattutto perché la sua figura non venisse abbandonata all’oblio. Da dodici anni i due fratelli, che nel frattempo hanno costituito la “Fondazione Angelo Vassallo”, girano l’Italia intera e non solo, per far conoscere chi era il sindaco pescatore, quali le sue opere e le sue idee. È grazie soprattutto a quest’impegno instancabile se oggi si può dire che quasi nessuno ignora il suo nome, diventato simbolo di politica come lotta per la legalità, per l’ambiente, per il mare pulito, per la bellezza.

La candidatura di Dario nel suo territorio, dove è nato e non abita ma è luogo di sua attiva presenza, è un riconoscimento per questo impegno, ma anche un monito per una classe dirigente locale che non sempre ha brillato e brilla per analogo impegno nei confronti della legalità. In questo senso non bisogna nascondersi che in questi anni Dario e Massimo hanno incontrato non poche difficoltà a condividere la loro battaglia per verità e giustizia, in un clima non sempre favorevole alla collaborazione. Intendiamoci: il Sud è noto per essere terra difficile riguardo alla critica ai potentati e alla mobilitazione civile, pur se non mancano tanti luminosi episodi. È connaturata alla sua costituzione storico-politica e sociale la subalternità dei più allo strapotere delle élite, siano state nel tempo i latifondisti o le Curie oppure, in tempi recenti e attuali, prepotenti di professione come politici corrotti, camorristi e “gente di rispetto” dai colletti bianchi. È una tragedia nazionale, che non esiste più solo al Sud purtroppo, ma che lì assume i caratteri della rinuncia preventiva, dell’adattamento ai voleri del più forte, anche all’accettazione acritica – se non tante volte alla condivisione piena e all’immedesimazione nella subcultura mafiosa.

Angelo era ostico nel contrastare quelle mentalità e Dario, con Massimo, non sono da meno. Ciò non vuol dire certo che l’intera società meridionale, campana e tantomeno cilentana, siano amalgamate ai criteri del dominio criminale. Sarebbe un grave errore solo pensarlo: ci sono tanti cittadini onesti e anche tanti amministratori pubblici che fanno il loro dovere con serietà e senso delle istituzioni. A volte al Sud ci si divide pur stando dalla stessa parte della barricata, per mancanza di fiducia negli altri, per eccessiva asprezza delle condizioni di vita, per uno Stato troppe volte lontano o che si presenta col volto peggiore.

La storia di Angelo è proprio quella di un personaggio che stava cercando di superare quelle difficoltà e aveva messo il “dito nella piaga” di un sistema politico troppo assuefatto al compromesso deteriore: per questo, per il successo che stava mietendo, andava tolto di mezzo. Ora Dario si cimenta in un’impresa non facile, conquistare molti voti in questo territorio difficile, in un‘elezione tra le peggiori degli ultimi vent’anni, ma è un uomo molto coraggioso; nel Meridione c’è bisogno di riportare passione civile e volontà di riscatto. Un plauso al Movimento 5 Stelle e al suo parlamentare Luca Migliorino, tanto impegnato nella battaglia per Angelo. Una scommessa forte che si può vincere.

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Elezioni, Conte: “Alle donne va assicurata vera parità, il congedo di paternità deve arrivare alla stessa durata di quello di maternità”

“Alle donne dobbiamo assicurare una vera parità, non dire della finzione della parità salariale. La donna ha un problema, a differenza dell’uomo, spesso è costretta a rinunciare alla prospettiva lavorativa per i figli, ma vogliamo mettere le donne nella condizione di superare questo dilemma? Allora il congedo di paternità… lo stesso congedo di maternità lo diamo anche agli uomini. Dobbiamo arrivare alla stessa durata per una vera parità”. Così il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, intervenendo a Radio Popolare.

Sottolineando che oggi c’è un M5s “molto più maturo”, Conte evidenzia come il Movimento sia una forza “più progressista”: “Vede le battaglie che stiamo facendo sul salario minimo? – spiega – Parliamo di nove euro lordi l’ora. Noi non vogliamo esiliare il ruolo dei sindacati ma è chiaro che quando parliamo di salario minimo non dobbiamo girarci intorno, il lavoratore che prende 3-4 euro euro lordi l’ora, quella soglia va portata a 9, è la soglia della dignità costituzionale del lavoro”.

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mercoledì 24 agosto 2022

Regionali Sicilia, dopo la rottura dell’alleanza il Pd annuncia una causa contro il M5s: “Strappo al fotofinish per creare danno”

Il Pd annuncia una causa contro il M5s dopo la rottura dell’asse giallorosso in Sicilia. “Ho dato mandato ai legali di verificare se ci siano le condizioni per una causa: Nuccio Di Paola ha firmato un accordo in cui si impegnava a nome del Movimento a sostenere chi avesse vinto le primarie, non si può dopo fare come se nulla fosse e verificheremo se la sua candidatura sia a questo punto legittima”. Anthony Barbagallo, segretario siciliano del Partito democratico, lo ha annunciato in un’intervista a La Sicilia, e lo ribadisce a Ilfattoquotidiano.it. “Più determinati di me saranno i nostri avvocati”, dice il dem. Per i democratici la decisione, presa un mese dopo avere partecipato alle primarie con Pd e Sinistra, “è stata al fotofinish per creare il danno maggiore possibile”. “Mi spiace che da un piano politico si passi ad uno burocratico: ha il sapore amaro della ripicca”, ribatte Nuccio Di Paola: “Il Pd pensava di poterci usare liberamente come stampella, e dopo avere rotto a Roma, accusa noi di avere causato danni. Io dico che i siciliani hanno diritto a scegliere tra due visioni politiche diverse. Anche perché se la mettono su questo piano, è evidente che un percorso politico comune non era possibile”.

Un botta e riposta al vetriolo che segna l’inizio di una campagna elettorale infuocata anche tra ex alleati. Il tutto, pare, originato dalla questione “impresentabili”: negli ultimi giorni di trattative si era inserita la candidata vincente alle primarie, Caterina Chinnici, che aveva chiesto al Pd che non ci fossero candidati con pendenze giudiziarie nelle liste per le Regionali. E’ stato il tentennamento del Pd alle sue richieste a convincere il leader del M5s a rompere la coalizione anche in Sicilia, lì dove M5s e Pd avevano partecipato per la prima volta a primarie di coalizione nonostante la spaccatura già consumata tra i due partiti a Roma. Le primarie si erano infatti tenute il 23 luglio, quando già Mario Draghi aveva rimesso il suo mandato a Sergio Mattarella. Mentre a Roma si rompeva, dunque, in Sicilia si andava avanti a dispetto degli equilibri nazionali. Un mese dopo, però, quegli equilibri hanno travolto anche le elezioni regionali che in Sicilia si terranno il 25 settembre, contemporaneamente alle Politiche.

La coincidenza delle due elezioni nello stesso giorno aveva reso la convivenza già molto difficile, fino alla rottura: “Impresentabili nelle nostre liste non ce ne sono ed è stata una scelta presa in totale autonomia dal Pd”, sottolinea Barbagallo, fugando anche le voci secondo le quali Chinnici, che dopo il forfait dei Cinque stelle aveva pensato di ritirarsi, abbia deciso di restare in partita a patto di liste specchiatissime. A farne le spese 4 candidati, in primis Giuseppe Lupo, che ha deciso di ritirarsi, poi anche il sindaco di Melilli, Giuseppe Carta e gli ultimi due, diventati ormai un vero e proprio caso: Angelo Villari e Luigi Bosco hanno deciso di correre con Cateno De Luca, abbandonando le file del Pd indignati. E dire che Villari del Pd era addirittura il segretario provinciale a Catania. Una dèbacle per i dem che non demordono: “De Luca mangia voti al centrodestra, il M5s mangia voti a De Luca: sarà una vittoria sul filo e i sondaggi ci confortano”, sostiene Barbagallo. Che scuote la testa: “Se i Cinque stelle fossero rimasti in coalizione avremmo vinto di sicuro. Ma ora è il momento di guardare al futuro e siamo convinti che la statura di Chinnici sarà premiata dagli elettori”.

Intanto, dopo la spaccatura, c’è da pensare alle liste per le regionali e al Pd manca ancora qualche nome e si vocifera che i dem stiano corteggiando i grillini favorevoli a mantenere l’accordo rimasti delusi dalla scelta di Conte. Ma il segretario siciliano del Pd nega: “Non facciamo campagna acquisti e la compravendita di candidati non è all’ordine del giorno”. “La nostra squadra è compatta. Più che fare chiamate ad alcuni dei nostri, dovrebbero pensare ai loro fuoriusciti”, sottolinea Di Paola per suo conto: “Queste elezioni porteranno molto sorprese e noi accoglieremo a braccia aperte tutti i delusi del centrosinistra siciliano”. La scadenza per la presentazione delle liste regionali è alle 16 del prossimo 26 agosto. La campagna elettorale è appena iniziata.

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martedì 23 agosto 2022

Regionali Sicilia, Chinnici: “Resto candidata, non volto le spalle agli elettori”. Il segretario dem Barbagallo attaccato dopo lo strappo M5s

Sull’orlo della disfatta, il Partito democratico trova un attimo di sollievo con la decisione di Caterina Chinnici. Che ha ceduto al pressing e ha deciso di restare candidata alla presidenza della Regione siciliana, nonostante la corsa sia data ormai per persa dopo la rottura del patto col M5s. “Non volterò le spalle agli elettori, quelli che hanno votato alle primarie e anche i tantissimi altri che sono pronti a sostenermi riponendo, di questo sono certa, precise aspettative nella mia storia, dandomi una consegna di responsabilità della quale, nel mio ruolo guida, intendo essere garante”, fa sapere in una nota. “Metto nuovamente a disposizione il mio amore per la Sicilia, il mio impegno – aggiunge – nella consapevolezza che il percorso prospettato è ora più difficile”.

Un suo forfait sarebbe stata una sconfitta pesantissima per i dem, che hanno insistito sulle primarie di coalizioneda cui l’europarlamentare è uscita vincitriceanche quando l’asse giallorosso si era già frantumato a livello nazionale. E che, soprattutto, hanno voluto a tutti i costi inserire il nome di Chinnici nel simbolo elettorale, nonostante la richiesta in senso contrario dei 5 stelle. Andare alle urne con un simbolo (non più modificabile) che richiama una candidata ritirata era l’incubo che nelle scorse ore aveva prendendo forma nelle stanze del partito siciliano. Che, dopo lo strappo di Giuseppe Conte, sta vivendo un’atmosfera da resa dei conti.

Secondo i critici il maggior responsabile del disastro è il segretario regionale Anthony Barbagallo, reo di avere insistito per le primarie ma anche di avere concesso troppo al M5s nelle trattative degli ultimi giorni, cedendo – è la ricostruzione – a tutte le richieste del Movimento. “Da quando si è saputo che Conte era candidato in Sicilia, si doveva intuire la svolta dei grillini. Come poteva fare la campagna assieme al Pd e contro il Pd contemporaneamente? Che avrebbe rotto era fin troppo chiaro”, ragiona in anonimo un esponente dem. Per il segretario, invece, la decisione è arrivata apparentemente come un fulmine a ciel sereno, tanto da spingerlo a parlare di “alto tradimento”.

Di sicuro però la rottura potrebbe costargli molto cara. Martedì sera è stato preso di mira durante la direzione regionale Pd, terminata oltre la mezzanotte: “Hai distrutto una comunità, delegittimato storie politiche, attuato sistemi peggiori di quelli dei partiti di destra. La tua permanenza alla guida del Pd rischia di causare una balcanizzazione costante: hai il dovere di farti da parte per salvare il salvabile e consentire che il Pd vada avanti verso la campagna elettorale”, ha affondato il dirigente locale Antonio Rubino. Parole che gli sono subito costate la revoca dell’incarico di coordinatore della segreteria regionale. Cosicché l’indomani ha deciso di insistere: “La permanenza dell’attuale segretario alla guida del Pd siciliano va assolutamente scongiurata: deve farsi da parte”.

Le radici della tensione nascono dai rancori creati dalle liste siciliane, da cui è stato escluso l’orfiniano Fausto Raciti e sono stati isolati in posizione non eleggibile gli ex renziani, mentre Barbagallo figura capolista alla Camera. Non a caso gli attacchi più duri ieri in direzione sono arrivati da Carmelo Miceli, ex renziano, e dall’orfiniano Rubino, che infatti sottolinea: “Sono state devastate storie politiche, umiliate persone, alimentato un clima da caccia alle streghe degno dei peggiori partiti di destra. È stata usata e devastata una comunità al solo fine di autotutelare se stessi”. In silenzio, per ora, Barbagallo incassa i colpi, confortato dalla decisione di Chinnici. Ma la resa dei conti è appena iniziata.

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Elezioni, una sintesi dei programmi sul lavoro – il pregio del M5s è che indica percorsi da seguire

Ecco la puntata relativa al programma del Movimento 5 Stelle, basato sui nove punti presentati da Giuseppe Conte al presidente del Consiglio Mario Draghi. Ricordo che si tratta di un’analisi limitata alle sole idee relative al marcato del lavoro e che queste vengono raggruppate per argomenti, su cui provo ad esprimere un’opinione segnalando eventuali criticità e/o punti di forza. Il tutto viene poi schematizzato in un giudizio sulla base di tre simboli:

per un’opinione positiva
per sintetizzare un giudizio negativo e
per esprimere un dubbio, legato o alle genericità della proposta o alla mancata indicazione di elementi utili a comprenderne le modalità di realizzazione

Mantenimento del Reddito di Cittadinanza e potenziamento delle politiche attive

Il documento M5S del 6 luglio 2022 insiste sul mantenimento del RdC, proponendo una serie di interventi correttivi, che mirano a contrastare eventuali abusi e all’incentivazione per i soggetti cosiddetti “occupabili” ad accettare le offerte di lavoro. Opportunamente, si collega la necessità di aggiornamento del RdC con una rivisitazione delle politiche attive, tramite la creazione di una piattaforma nazionale per la gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, volta a raccogliere tutti i dati dei beneficiari di prestazioni di sostegno al reddito (non solo percettori del Rdc, ma anche di Naspi, Discol, Ds agricola etc…).

La piattaforma potrebbe permettere alle imprese di accedere al database dei percettori di prestazioni e permettere, grazie alla presenza di dettagli relativi alle loro competenze, al loro profilo e al luogo di residenza, un più facile incontro tra domanda e offerta, con specificazione dei benefici di cui godrebbe il datore di lavoro in seguito all’assunzione di quella determinata persona.

Sull’utilità della misura, con i limitati interventi correttivi segnalati dalla professoressa Chiara Saraceno, mi sono già espresso.

Giudizio:

Introduzione del salario minimo

Sulla base della constatazione che 4,5 milioni di lavorator* hanno “buste paga da fame, che ledono la loro stessa dignità”, si vorrebbe introdurre per via normativa il cosiddetto “salario minimo”, cioè una misura che valorizzi la centralità della contrattazione collettiva e combatta i cosiddetti contratti collettivi pirata, cioè i contratti collettivi al ribasso, stipulati da organizzazioni sindacali e datoriali prive di effettiva rappresentanza. Ricordo che il 7 giugno 2022 il Consiglio e il Parlamento Ue hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva relativa a salari minimi nella Ue, che vede nella contrattazione collettiva lo strumento ideale per la quantificazione dei salari minimi.

Sulla situazione italiana e sulla non necessità di una legge, poiché sono già presenti strumenti giuridici adeguati, mi sono già espresso e rinvio al mio post dell’ottobre 2021. Quello che serve è, in realtà, potenziare i controlli e sanzionare chi non applica i contatti collettivi.

Giudizio:

Lotta al precariato

L’obiettivo è generalmente apprezzabile, a condizione che non sia una semplice modifica normativa che, come quella del 2018, ha visto semplicemente eliminare la possibilità di stipulare contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi, da cui è derivato un costante ricambio per le figure professionali più fragili, come quelle dotate di minor competenza e, quindi, facilmente sostituibili con altri lavorator*. La proposta prevede la possibilità di riconoscere incentivi per favorire assunzioni a tempo indeterminato.

Discutibile, invece, che il contratto a tempo determinato possa essere stipulato solo a fronte di specifiche causali, come era previsto dalla normativa del 1962.

Giudizio:

In questo caso il programma non si limita a slogan, ma indica alcuni percorsi da seguire. È apprezzabile, quindi, il rispetto manifestato per l’intelligenza dell’elettore, a prescindere dal fatto che si condivida – o meno – la soluzione proposta.

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lunedì 22 agosto 2022

Regionali Sicilia, il Movimento 5 stelle ha deciso: correrà da solo con Nuccio Di Paola. Salta l’alleanza con il Partito democratico

Il M5s andrà da solo in Sicilia. La decisione è stata comunicata da Giuseppe Conte in una riunione su zoom con i Cinque stelle siciliani. Si rompe l’alleanza giallorossa, quindi, anche in Sicilia. Il candidato sarà Nuccio Di Paola, il referente del M5s nell’isola.

“In Sicilia – scrive Giuseppe Conte su Facebook – il Movimento 5 Stelle correrà da solo, per dare riscatto e dignità a tutta l’isola. Alcune settimane fa ero stato chiaro: quello che vale a Roma vale a Palermo”. “Qui – continua l’ex premier – abbiamo tentato fino all’ultimo di costruire un percorso comune, anche in considerazione del percorso di partecipazione costruito in occasione delle primarie. Dal Partito democratico, però, ancora una volta non sono giunte risposte adeguate“. Tutto azzerato adesso, dopo avere partecipato alle primarie di coalizione, dalle quali è uscita vincitrice Caterina Chinnici, proposta dal Pd, a questo punto diventate nulle. La stessa Chinnici, secondo indiscrezioni, starebbe pensando di ritirarsi dalla corsa per la presidenza della Regione. Intanto sottolinea che è tutto azzerato: “Attraverso le primarie mi era stata affidata la guida di una coalizione che non esiste più. Tanta rispettosa e paziente attesa per ritrovarsi ora in uno scenario stravolto che di fatto azzera tutto e impone nuove riflessioni nel pochissimo tempo rimasto”.

Uno scenario quasi apocalittico per il centrosinistra nell’isola dopo la decisione del leader del M5s. Quasi tutti i grillini siciliani erano a favore dell’alleanza, pochi durante la riunione con Conte gli interventi a favore della rottura. Il Partito democratico aveva posticipato la direzione regionale in attesa della decisione del M5s. Restava solo da decidere il candidato per la guida della Sicilia per il M5s: Barbara Floridia, candidata alle primarie è capolista nelle liste per il Senato, così al posto suo andrà il referente Nuccio Di Paola. Sarà lui a guidare una corsa considerata a perdere per il M5s che da solo, contro la corazzata del centrodestra, secondo facili previsioni di tutti gli osservatori, non potrà vincere. Di Paola, gelese, 40anni, referente siciliano e capogruppo del Movimento all’Ars, è considerato molto vicino a Giancarlo Cancelleri e in questi mesi ha mediato in prima persona col resto della coalizione per l’organizzazione delle primarie e, nelle ultime settimane, per tenere assieme la coalizione.

La campagna elettorale si annuncia molto agguerrita nel centrosinistra siciliano dove già arrivano gli strali degli ex alleati: “Dispiace doverlo dire ma Conte è un bugiardo. Come nella favola del lupo e dell’agnello ha continuato ad alzare la posta cercando un pretesto per rompere: prima il programma, poi gli assessorati, poi il listino… Conte aveva deciso di uscire dalla coalizione nel momento stesso in cui ha scelto di candidarsi a Palermo. Non ha avuto l’onestà politica e umana di dirlo. Ma almeno adesso faccia a meno di arrampicarsi su altri improbabili pretesti”, questo è il commento a caldo di Claudio Fava, terzo candidato alle primarie di luglio (se Chinnici dovesse decidere di rinunciare potrebbe essere lui il candidato del Pd e della sinistra). Ma non sono solo gli ex alleati ad essere molto critici: “Il M5s, per una poltrona in più, ha scelto di voltare le spalle a Caterina Chinnici, magistrato dalla storia personale e professionale irreprensibile e consegna la Sicilia alla destra più pericolosa di sempre”, così commenta Giampiero Trizzino, consigliere regionale del M5s, esperto di Ambiente, uno dei pontieri in questi giorni per la tenuta dell’alleanza. A questo punto è ancora tutta da vedere anche per il Pd e per Cento Passi, di Claudio Fava. Di certo la Sicilia andrà alle elezioni con due candidati per il centrosinistra e due per il centrodestra che ha già deciso di candidare Renato Schifani, ma a contendere i voti in quest’area ci sarà anche Cateno De Luca. Per questo, in molti nel centrosinistra consideravano la vittoria possibile se si fosse andati compatti. Un’ipotesi a questo punto sfumata.

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Che fine ha fatto la sinistra in Italia? Una crisi tra ideologia e opinione

Esiste in Italia una sinistra? In apparenza sui social c’è una grande domanda di sinistra e i partiti a sinistra del Pd proliferano; ma non c’è incontro tra domanda e offerta perché i partiti a sinistra del Pd raccolgono pochissimi voti. Che fine hanno fatto gli elettori del Pci che da oltre il 30% ai tempi di Berlinguer erano calati al 26% nelle elezioni politiche del 1987, al 22% (sommando Pds e Rc) in quelle del 1992 e oggi faticano a raggiungere la soglia del 3%? Dove sono andati a finire quelli che votavano i socialisti di Pietro Nenni e Sandro Pertini? E dove si situa il M5s, col suo ormai scarso 10%, nel continuum destra-sinistra?

Io credo che la crisi abbia almeno due ragioni: una ideologica e una che possiamo chiamare di opinione, per intendere il modo in cui il pubblico comprende, interpreta e semplifica l’ideologia o la propaganda dei partiti. Sulla crisi ideologica della sinistra ho già scritto altre volte: l’ideologia comunista è caduta nel 1989-1991 e non è stata sostituita, o meglio è stata sostituita pragmaticamente, accettando come necessaria la coesistenza dell’imprenditoria pubblica e privata, senza però ammetterlo. Soprattutto, non è stato ridimensionato esplicitamente il concetto di lotta di classe: se l’imprenditore privato è necessario alla società moderna, diventa la controparte con cui negoziare, non più il nemico da abbattere o da punire. La crisi di opinione è più sfuggente.

Come ha scritto Luca Sofri qualche anno fa: “Le persone che hanno pensieri progressisti, riformisti, non razzisti, democratici, (…) sono e sono sempre state una quota esigua degli elettori dei partiti ‘di sinistra’. I milioni e milioni di persone che li hanno votati sono sempre state in gran parte persone che avevano un desiderio di cambiamento e di miglioramento delle proprie condizioni, per le quali persone i partiti di sinistra sono stati convincenti nel rappresentare questo desiderio.” Se sulla scena politica si affaccia un partito che promette di più, una buona quota del vecchio elettorato di sinistra lo voterà, per convenienza (o per speranza che gli convenga). Si verifica allora una crisi tra ideologia e opinione, perché l’elettore che continua a ritenersi “di sinistra” si sente meglio rappresentato da partiti ideologicamente lontani dalla sinistra, che ai suoi occhi sembrano proseguire, a suo vantaggio, la lotta di classe.

Un punto fermo e non rinunciabile dell’ideologia di sinistra è quello dei rapporti tra economia, lavoro e politica; l’inno dei lavoratori di Filippo Turati parlava di riscatto del lavoro e la nostra Costituzione, scritta all’indomani della caduta del Fascismo e con un grande contributo della componente comunista e socialista, dichiara l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro.

Marx, riprendendo idee di Smith e Ricardo, sosteneva che il valore di una merce è dato dal lavoro necessario per produrla. Che il lavoratore presti la sua opera per un datore di lavoro pubblico o privato non cambia questo nocciolo duro del pensiero “di sinistra”. Salario minimo, contrattazione sindacale, diritti dei lavoratori sono concetti conseguenti alla più ferma tradizione della sinistra, secondo la quale la dignità viene dal lavoro, di cui il reddito è una, ma non la sola, conseguenza.

La miserabile ideologia di Beppe Grillo: “è il reddito che ti include nella società, non il lavoro” non ha nulla a che vedere con la sinistra, ma a molti elettori può apparire più conveniente. Il povero Giuseppe Conte cerca di presentare la linea di Beppe Grillo come “di sinistra”; ma se ci riesce è perché nessuno capisce più cosa significa “essere di sinistra”. Matteo Renzi ha cercato di svecchiare la sinistra ma essendo ideologicamente un incapace è finito a destra e oggi flirta con gli ex-Berlusconiani: ha inseguito il consenso anziché costruire qualcosa su cui la gente potesse seguire lui e ha fallito.

Se superare la crisi ideologica è difficile, superare la crisi di opinione è ancora più difficile, perché l’opinione non ha centralizzazione ma, soprattutto nell’era del web, è capillarmente prodotta e diffusa da ciascun cittadino per se stesso. Una riformulazione esplicita dell’ideologia della sinistra è oggi necessaria e deve tenere conto delle aspettative degli elettori, o almeno prevedere e moderare il contrasto con quelle di cui non si può tenere conto: non si può da sinistra inseguire il “prima gli italiani” di Salvini, ma si deve fornire agli elettori una ragione del perché no, sottolineando che l’internazionalismo conviene a tutti, che un paese capace di accogliere crea al suo interno le condizioni per cui i suoi cittadini non avranno a loro volta bisogno di essere accolti, e che “ciascuno” significa anche “ciascun altro”.

Allo stesso modo non si può ricevere senza dare, non foss’altro perché ciò che qualcuno riceve qualcun altro lo ha dato. E’ utile per tutti che esistano sussidi e servizi pubblici, ma perché possano esistere è necessario che ogni cittadino che può farlo contribuisca a produrre le risorse necessarie col suo lavoro e con le sue tasse; e diceva una cosa di sinistra Tommaso Padoa Schioppa quando sosteneva che le tasse sono “bellissime”. Vallo a spiegare alla gente che si ritiene di sinistra.

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Elezioni, sulla cultura anche M5s e il terzo polo: tra le ‘calendate’ c’è poco da sognare

Invece di cominciare a pensare a come arginare i guasti del distrut-turismo, le due coalizioni principali si affronteranno nelle urne il 25 settembre promettendo di non finanziare soltanto le assurde nuove piste da bob a Cortina o gli orribili albergoni, ma anche le iniziative culturali purché finalizzate a battere la grancassa turistico-nazionalista. Non si capisce bene a quale santo votarsi, letteralmente, per convincere la nostra classe politica che la cultura non può essere soltanto del parmigiano da grattare sul turismo. Men che meno dopo un’estate dove il micidiale mix tra caldo, siccità e assalto dei turisti ha messo così a dura prova il fu Belpaese, da Venezia alla costiera amalfitana, dai laghi alle nostre disgraziate montagne.

Qui casca pure il cosiddetto “orgoglio identitario“: se diventiamo tutti sempre più ignoranti, e magari alcuni, pochi, più ricchi – dopo aver svenduto all’assalto di massa i nostri luoghi più belli -, non è che l’Italia possa andare avanti tanto meglio. Purtroppo, anche guardando bene tutti gli altri programmi elettorali, si può notare prima di tutto quanto la vulgata nazionalista e l’attenzione economicista dei due grandi blocchi post-fascista e post-cattocomunista siano ormai davvero egemoniche.

Persino nel testo ufficiale dei 5 Stelle la cultura compare tra le righe programmatiche dedicate al turismo. Con le promesse di un piano di assunzioni pubbliche, del freno alle esternalizzazioni e della lotta al precariato sottopagato, comunque, s’accentua perlomeno la connotazione sociale delle pagine gialle delle promesse di Giuseppe Conte sui luoghi della cultura. Ancora, di notevole, i 5 Stelle promettono pure di promuovere la cultura anche per “l’inclusione” degli emarginati e dei migranti. A proposito, guardando un attimo agli alleati verdi-sinistra del Pd, ecco che ricompare la parola “teatro”, inserita nel contesto del punto sull’Italia sociale: “ogni periferia, oltre ai servizi necessari, sarà dotata di una specificità a livello urbano che la caratterizzi (teatro, biblioteca, museo, parco…) in modo che si crei interdipendenza con le altre parti del territorio”. Sic.

E veniamo a Matteo Renzi, che non è certo più quello della Leopolda dove bussava alla porta di Baricco per ritrovarsi in un Campo dall’Orto (poi spedito alla Rai): adesso lascia la scena a Calenda e alla piccola comitiva di leaderine per il centro-sinistra-Draghi. Ufficialmente presentano 68 pagine di programma, di cui una e mezza soltanto dedicata alla cultura. Eppure, tutto sommato, questa è una piattaforma bene articolata, in 13 punti, con il principale intendimento di smuovere la scarsa dinamica dei nostri consumi culturali, che vede l’Italia al penultimo posto in Europa.

In mezzo a vere e proprie “calendate“, come la proposta di “un viaggio gratis a Roma per tutti gli under 25”, nell’autoproclamatosi Terzo Polo si ricordano almeno dello “spettacolo dal vivo” – detto così, con categoria onnicomprensiva -, puntando a promuovere il ritorno nelle sale degli studenti e delle scuole, promettendo incentivi agli under 40 che vogliano impegnarsi nel settore, ai progetti di rigenerazione urbana e ai soggetti culturali che operano nelle carceri. Bene, peccato che poi il programma unico concreto di Azione-Italia Viva sia l’agenda Draghi con Draghi, il cuore di banchiere di cui esistono persino le foto a messa e neanche una in un teatro… Il che vuol dire la fantomatica “Missione Turismo e Cultura 4.0” che è già nel Pnrr europeo, ovvero un’azione molto limitata alle pur sacrosante digitalizzazione del patrimonio artistico e abbattimento delle barriere architettoniche, con qualche mancia per l’industria cinematografica.

Se queste sono le promesse elettorali dei partiti italiani, figurarsi gli addetti ai lavori come si possano sentire già soffocati. Sono tutti d’accordo, nei due grandi blocchi, che avremo sempre gli stessi “grandi” teatri e tanti nuovi “grandi” eventi, che divorano montagne di soldi pubblici e li sottraggono ad altre iniziative. Resteremo ancor più chiusi rispetto alla realtà internazionale e sempre più sordi alle avanguardie. Persino nell’improbabile caso di una vittoria molto diversa da quella che s’annuncia, c’è poco da sognare: qualche scolaresca a teatro in più, l’apertura di piccole nuove sale di periferia, la finta cooperativa che non potrà più dare la miseria di 5/6 euro l’ora alle maschere, qualche bello spettacolo per l’integrazione dei meno fortunati…

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domenica 21 agosto 2022

Elezioni, Conte: “M5s al governo un domani col Pd? Saremo più prudenti e intransigenti”

Parla di “strascico negativo” nel rapporto con il Pd, di augurio di poter “governare da solo” ma la considera una realtà “improbabile”. Per questo, Giuseppe Conte non esclude di dover lavorare con altre forze politiche in futuro: “Ci può stare”, dice. A partire proprio dai dem, compagni del suo secondo governo e dell’appoggio a Mario Draghi.

Ma avverte: “Le delusioni maturate ci rendono ancora più prudenti ed esigenti, direi intransigenti”, spiega ospite di Mezz’ora in più su Rai Tre: “D’ora in poi ci sederemo a un tavolo con condizioni ancora più chiare del passato… Non cederemo su nulla”, avverte l’ex premier e presidente del M5s.

ELEZIONI, TUTTI GLI AGGIORNAMENTI DI DOMENICA

Il perché lo aveva spiegato poco prima: “L’accordo col Pd ha lasciato uno strascico negativo. Dopo aver lavorato nel Conte II con una forza politica che volesse operare una svolta rispetto al proprio passato, convintamente progressista, ci siamo trovati spaesati”.

Il Pd, ricorda, “ha abbracciato l’agenda Draghi” e quindi “lo abbiamo visto timido su alcuni pilastri del Conte II e assolutamente contraddittorio su altri pilastri, come l’inceneritore” di Roma che, ha ricordato, era escluso dai punti programmatici che avevano portato all’accordo per il precedente governo.

E alla domanda sulla collocazione del Movimento, più a destra o a sinistra, Conte ha sottolineato: “Noi diciamo che siamo molto più progressisti del Pd e lo dimostriamo con i fatti”. “Con queste politiche di destra non abbiamo nulla a che fare, questo è un manifesto progressista. Noi sfuggiamo a queste ricostruzioni ideologiche che non colgono il senso questa fase politica”, ha spiegato ancora Conte.

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Salario minimo, la marcia indietro di Di Maio. Dall’impegno per i 9 euro lordi l’ora a “non lo puoi imporre per legge agli imprenditori”

Mentre anche Azione e il Pd si allineano alla proposta M5s di un salario minimo di 9 euro lordi all’ora, l’ex pentastellato e oggi leader di Impegno Civico Luigi Di Maio ci ripensa. Il ministro degli Esteri, che da esponente del Movimento e vicepremier di Giuseppe Conte era stato tra i grandi sostenitori della misura contro la povertà lavorativa, ora ha cambiato idea. “Dobbiamo prevedere un salario minimo, ma non possiamo imporlo per legge perché dovrebbero pagarlo le imprese”, ha detto sabato in un video su YouTube. Che cosa intenda l’aveva spiegato ancora meglio il 26 luglio a In Onda: “Il salario minimo si deve fare e siamo tutti d’accordo, ma non lo puoi imporre per legge agli imprenditori che già pagano un botto di tasse”. Una posizione assai diversa rispetto a quella del giugno 2019, quando spiegava: “Prevediamo di fissare per legge una soglia di almeno nove euro lordi l’ora al di sotto della quale non si può scendere. In sostanza, contratti da tre o quattro euro l’ora come se ne vedono oggi non saranno più consentiti”.

Dopo l’uscita dal Movimento la sua posizione è diventata assai più conciliante nei confronti delle imprese: salario minimo sì, ma non per legge. “Non puoi dire agli imprenditori che devono aumentare gli stipendi tout court”, ha esplicitato a Tg4, diario del giorno strizzando l’occhio al suo potenziale nuovo elettorato, “devi mettere al tavolo imprenditori e qualche dipendente e raggiungi un accordo per cui d’ora in poi nessuno viene più pagato due o tre euro all’ora”. L’idea sembra insomma quella di rifarsi ai minimi contrattuali lasciando che a sbrogliare la matassa siano le parti sociali. Le stesse che in alcuni casi hanno sottoscritto accordi che prevedono minimi di pochi euro all’ora, appunto.

Di salario minimo in Italia si parla da almeno 15 anni ma, nonostante le proposte, nessun governo è mai riuscito a introdurlo. In Unione Europea sono 21 i Paesi che hanno un salario minimo per legge su 27 totali. Tra i grandi assenti c’è proprio l’Italia, che è anche il quarto Paese Ue per quota di lavoratori poveri, ovvero di cittadini che pur lavorando guadagnano troppo poco per la propria sussistenza. Tra i più grandi sostenitori di questa misura di civiltà – nonché battaglia identitaria del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione – c’era proprio Di Maio, che a più riprese da ministro del Lavoro e dello Sviluppo e vicepremier del governo Conte 1 ne ha promesso l’introduzione sostenendo il ddl Catalfo, a firma della senatrice ed ex ministra del Lavoro del Movimento 5 Stelle Nunzia Catalfo. Per Di Maio quella del salario minimo era una battaglia necessaria per “dare dignità alle retribuzioni”. “Dobbiamo accelerare l’iter della proposta sul salario minimo orario perché tutti dicono a chiacchiere di essere a favore del lavoro, ma in realtà chi approva questa legge sarà colui che avrà tutelato i diritti dei lavoratori. Chi invece, in questo momento, lo sta rallentando, sta dando una pugnalata a quei lavoratori”, dichiarava. Una visione molto differente dal “salario minimo facoltativo” di cui il leader di Impegno Civico parla oggi.

E ancora, in un post pubblicato su facebook il 1° aprile 2019, Di Maio sottolineava: “Nel 2015 pure la Germania ha colmato il gap, introducendo un salario minimo che nel 2018 si è attestato a 8,84 euro all’ora (1.497,50 euro mensili) che saliranno a 9,19 euro nel 2019 e 9,35 nel 2020 (12 euro lordi all’ora dal prossimo 1° ottobre, ndr). In Francia invece l’anno scorso il salario minimo stabilito è stato pari a 1.498,50 euro mensili. In Italia invece chi ha governato prima di noi, soprattutto la sinistra, non ha fatto niente per dare maggiore dignità ai lavoratori attraverso l’istituzione di un salario minimo orario. Questa è una storica battaglia del MoVimento 5 Stelle e il 2019 dovrà essere l’anno del salario minimo orario!”. “Come si cambia per non morire”, cantava Fiorella Mannoia. E com’è cambiato per affrancarsi al centro moderato il ministro degli Esteri che ora, nel bel mezzo della campagna elettorale, esprime posizioni politiche diametralmente opposte a quelle sostenute dal Di Maio a 5 Stelle di pochissimi anni fa.

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sabato 20 agosto 2022

Il M5s svolga il ruolo di argine contro la dissoluzione

Il già defunto patto repubblicano che avrebbe dovuto fare da custode della Costituzione non era specchiatissimo. Sarebbe lungo menzionare i tentativi di modifica irricevibili. Tra i tanti, quello più dimenticato è il progetto di riforma dell’art. 138 e la nomina delle due commissioni di ‘saggi’ fatta da Napolitano prima e da Letta (su impulso del primo) poi. Organismi non previsti dalla carta, che contribuivano a esautorare il parlamento e confermavano la conventio ad excludendum contro i 5 Stelle. Ma se è così, si dirà, perché si era proposta un’alleanza proprio tra M5S e Pd?

Avevo evocato, su queste pagine, san Paolo e il suo spes contra spem. Occorre scomodarlo nuovamente, menzionando il concetto di katechon, l’idea paolina di un ‘argine’ alla venuta dell’anticristo.

Se vogliamo dare una traduzione in termini di realismo politico a questo concetto teologico, occorre però ricordare che il freno tocca ciò che frena, si contamina con la sostanza che deve frenare. Del resto, il 5S ha avuto questo ruolo, nel bene e nel male (e anche volente o nolente), sin dall’inizio: ha evitato la svolta a destra del paese, contenendola ma in qualche modo assorbendola e facendone una delle anime del Movimento, forte dell’idea (discutibile e non condivisa da chi scrive) che destra e sinistra non esistessero più. È successo poi con la Lega. Ed è successo con il Conte II e con il Pd, e poi con Draghi.

Ora Conte ha portato i 5S verso una nuova identità, abdicando, in qualche misura, all’idea che non esista più una topografia politica assiale-lineare in cui le forze politiche possono essere collocate sui punti di una retta. Se l’alleanza con il Pd, almeno prima delle elezioni – in un sistema parlamentare, e nel nostro in cui il parlamentarismo talvolta è parossistico, tutto può accadere, dopo – è diventata, come ormai pare evidente, impossibile, occorrerà che il M5S continui la campagna elettorale senza contaminazioni, ma senza rifuggirle a prescindere dopo. Un Conte che corresse da solo avrebbe intanto davanti a sé delle praterie su temi fondamentali: welfare, ambiente, crisi climatica, giovani, reddito di cittadinanza, diritti, Sud, scuola e università; combinandoli con la fedeltà alla carta, che poi è l’unico modo di trattare quei temi. Per tornare a parlarsi dopo, invece, servirebbero condizioni miracolose: che il Pd si ricordasse del progressismo.

E invece va in tutt’altra direzione: “attrarre i voti della destra” con Calenda (vaste programme), l’alleanza con Bonino, la candidatura di Cottarelli, e così via. E suggerisce che il cupio dissolvi di Letta non sia casuale. O almeno, non potendo concepire tanta deliberata stoltezza politica, c’è da immaginare una sorta di genio del male all’opera, un grande vecchio, uno Stravecchio De Vecchionis, un disegno recondito, una regia occulta. Qualcuno che abbia detto, pensando alla destra: “vincete pure, e governate voi che a noi ci viene da ridere, viste le macerie sulle quali dovrete sedervi. Governate voi che tanto cadrete subito e arriverà la troika interna, cioè Draghi, la troika introiettata, la troika in interiore homine, ché non c’è bisogno nemmeno di evocare la troika straniera, dal momento che l’abbiamo talmente assimilata che andiamo col pilota automatico. Quando cadrete torneremo noi, l’apparato, e siederemo sulle macerie delle macerie, forse ancora una volta assieme a voi. E la troika interiore parrà ancora più inevitabile e il parlamento ancora più inutile, fallimentare, superfluo, sempre a rappresentare le forze sbagliate, e l’elettore si dimostrerà sempre più nel torto, e il tecnopopulismo sempre più necessario”. Se così sarà, nessuna funzione catecontica sarà più possibile.

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venerdì 19 agosto 2022

Regionali Sicilia, Chinnici non vuole gli impresentabili nelle liste del Pd: ma il partito insiste e vuole ben 4 candidati a processo

Si avanza a denti stretti. La coalizione giallo-rossa tiene ancora in Sicilia ma la tensione è alta e restano molti nodi da sciogliere. Questo viene fuori, in sostanza, dal vertice che giovedì pomeriggio ha visto riuniti a Caltanissetta il segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo, il referente del M5s, Nuccio Di Paola, Claudio Fava per i Cento Passi e la candidata alla presidenza della regione, Caterina Chinnici. A fine riunione i commenti sono sibillini: “Piccoli passi avanti”, indica sbrigativo un big siciliano dei Cinque stelle. E sono passi non solo piccoli ma pure molto incerti: “Nessuna esitazione sulla candidata che è di alto profilo, il dubbio è sull’affidabilità del Partito democratico, visto quello che sta succedendo su scala nazionale”, riassume Di Paola, dopo il summit di Caltanissetta.

Gli impresentabili – Vertice che ha spinto i dem a rinviare la direzione regionale, che si terrà domani, sabato 20 agosto, invece di oggi, tutto per guadagnare 24 ore e tentare di dirimere una delle questioni più roventi: gli impresentabili. A chiedere che non ce ne siano nelle liste è la stessa candidata. Ex magistrata, figlio di quel Rocco, creatore del pool antimafia, ucciso nel 1983, Chinnici, risultata vincitrice alle primarie dello scorso 23 luglio, non ne vuol sapere di presentarsi alla guida di liste non specchiatissime. I dem però hanno non uno ma quattro possibili candidati a processo. Il primo è Giuseppe Lupo: già candidato al consiglio comunale di Palermo e inserito nella lista degli impresentabili di Nicola Morra, in extremis, due giorni prima delle comunali. Lupo è a processo per corruzione per una vicenda che riguarda una consulenza affidata dal dem quando era vice presidente dell’Ars, a Walter Virga, l’avvocato che gestiva Trm, emittente locale, sequestrata ai Rappa e data in gestione giudiziaria a Virga. Secondo l’accusa, la consulenza sarebbe stata uno scambio: Lupo avrebbe ottenuto in cambio un contratto con la tv per la moglie giornalista, Nadia La Malfa. Tra gli impresentabili anche Angelo Villari e Luigi Bosco, ex assessori della giunta di Enzo Bianco a Catania, entrambi rinviati a giudizio per il dissesto del comune etneo. L’ultimo è Giuseppe Carta, il sindaco di Melilli (Siracusa) – passato da Fi nelle file dei dem dopo essere stato rieletto primo cittadino lo scorso giugno – che ha chiesto il giudizio immediato dopo essere rimasto coinvolto in un presunto giro di appalti pilotati dall’amministrazione di Melilli, per favorire aziende amiche. Quattro candidati “radicati sul territorio” ai quali i dem non vogliono rinunciare, per questo si sono dati 24 ore di tempo per approfondire le questioni giudiziarie e capire come potere aggirare i veti di Chinnici ma anche dei Cinque stelle.

I Dimaiani – Gli impresentabili sono però soltanto uno degli scogli da superare nel percorso unitario per le regionali: il Movimento ha fatto delle richieste alle quali i dem risponderanno nei prossimi giorni. La prima è che Chinnici non sia candidata nelle liste del Pd ma la richiesta più complessa è che il Pd non schieri nessun Dimaiano nelle sue liste: “Posso rassicurare subito il M5s che non ci saranno nelle liste regionali”, ribatte Barbagallo. Ma in quelle nazionali? “Lì non decido io”, alza le spalle il segretario dem. A riscaldare gli animi siculi tra Pd e M5s c’è, infatti, la candidatura di Lucia Azzolina nei collegi uninominali in Sicilia, data ormai per certa. Per questo tra i Cinque stelle si insinua la sfiducia nei confronti degli alleati: “Sorge il dubbio, dopo la rottura con noi a Roma, che si voglia tenere insieme la coalizione solo inseguendo ragionamenti elettorali: si sa che la Sicilia è il granaio del M5s, e i dem non vogliono rinunciare ai nostri voti. Comprensibile ma ci chiediamo che visione abbiano: noi vogliamo davvero cambiare la nostra isola, per questo continuiamo a dialogare, ma come possiamo fidarci di un alleato che non arretra su nessuna delle nostre richieste e che non rischia mai una scelta difficile in nome della tenuta della coalizione?”, ragiona un grillino storico.

La corsa al voto – Dubbi, nodi, veti e impresentabili: la strada verso il 25 settembre pare lastricata di intoppi. Il tempo però stringe e nelle prossime 48 ore si conoscerà il verdetto: Chinnici sarà la candidata unitaria o se il M5s schiererà in extremis un suo uomo o una sua donna? La tentazione per i grillini è forte, spinta da sondaggi che vedrebbero il Movimento in ascesa se andasse da solo. Dall’altro lato, però, il centrodestra sembra battibile: la candidatura di Renato Schifani è giudicata poco convincete da molti osservatori e la candidatura di Cateno De Luca potrebbe indebolire il consenso nel centrodestra. In ballo potrebbe esserci dunque la possibilità di vincere le elezioni e guidare la Sicilia: non una posta di poco conto. Per questo le prossime ore in Sicilia si prospettano caldissime.

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Sondaggi, Noto: Fratelli d’Italia cresce ancora e tocca il 25%. Il M5s risale al 13%: “Intercetta il voto di sinistra che non si riconosce in Draghi”

Cresce ancora Fratelli d’Italia, che arriva a oscillare tra il 24 e il 25% e stacca di tre punti il Partito democratico. Ma cresce anche il Movimento 5 stelle, che intercetta “gli elettori di sinistra, compresi quelli del Pd, che non si riconoscono nell’agenda Draghi”. A dirlo è l’ultima rilevazione di Noto Sondaggi, datata 17 agosto, che dà il partito di Giorgia Meloni solidamente avanti rispetto ai dem, fermi tra il 21 e il 22%. Mentre il M5s, dal 9-10% di cui era accreditato al momento della caduta del governo, risale intorno al 12-13%. Secondo il direttore dell’istituto di ricerca Antonio Noto, citato dal Corriere della Sera, la “radicalizzazione” imposta da Giuseppe Conte sta pagando, mentre a Fratelli d’Italia viene riconosciuta coerenza nell’opposizione a Draghi, a differenza delle altre due forze della coalizione. La Lega di Matteo Salvini, infatti, perde ancora qualcosa e si assesta tra il 12 e il 13%, mentre Forza Italia è stabile tra il 7 e l’8.

La “quarta gamba” del centrodestra, il maxi-cartello “Noi moderati” che tiene insieme quattro partiti diversi, potrebbe invece non riuscire a superare la soglia di sbarramento del 3% necessaria per eleggere candidati nella quota proporzionale: è stimato tra il 2 e il 3%, così come la lista Sinistra italiana/Europa verde che è in coalizione con il Pd. Chi non raggiungerà di sicuro il 3% sono le altre due forze del centrosinistra, +Europa e Impegno civico di Luigi Di Maio, entrambe stimate intorno all’1,5%, mentre il listone centrista di Matteo Renzi e Carlo Calenda si assesterebbe tra il 7% e l’8%. La simulazione di Noto relativa ai soli collegi uninominali indica invece il centrodestra come vincitore nell’80-90 per cento dei casi, con la possibilità di conquistare tra il 60 e il 64% per cento dei parlamentari, una soglia vicinissima a quella dei due terzi che consentirebbe modifiche alla Costituzione senza passare per il referendum confermativo.

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