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venerdì 30 novembre 2018

Reddito di cittadinanza: il problema sono i poveri, non le tessere

Chi stamperà le tessere ricaricabili è l’ultimo dei problemi del reddito di cittadinanza. Il progetto continua a restare fumoso nei suoi tratti fondamentali ma emergono già alcune serie questioni cui i Cinque Stelle dovrebbero porre rimedio finché sono ancora in tempo.

Secondo il Sole 24 Ore, nelle prime bozze del decreto legge sul reddito sono previsti incentivi per le imprese che assumono disoccupati di lunga durata, sopra i 24 mesi, pari a sei mensilità, tre mensilità per tutte le altre assunzioni.

Per non fare il bis di quanto visto negli anni renziani – incentivi a pioggia – bisogna assicurarsi che questi soldi vadano soltanto per assunzioni aggiuntive rispetto agli organici attuali. Oppure si cade nel solito rischio di trasformare l’incentivo in un mero sussidio: l’impresa non riconferma un contratto a termine (magari proprio per i nuovi vincoli del decreto Dignità) e assume il disoccupato beneficiario del reddito di cittadinanza. Zero nuova occupazione, ma risparmia. E per le mansioni a basso valore aggiunto, in cui la formazione acquisita vale poco, tutto il guadagno è per l’impresa mentre l’occupazione non aumenta. Da dove arriveranno questi soldi? Se dai 7,1 miliardi previsti per il reddito di cittadinanza (e non si vede da dove altro potrebbero arrivare, visto che nuovi stanziamenti sono esclusi), la platea dei beneficiari potenziali del sussidio si restringerebbe di molto.

Ora, il fatto che il numero di italiani che riceverà il reddito di cittadinanza possa essere, soprattutto all’inizio, molto limitato non è una tragedia. L’importante è che siano quelli giusti, cioè i più poveri. Secondo i calcoli dell’Alleanza contro la povertà, per sollevare le famiglie dalla povertà assoluto – l’incapacità di acquistare un paniere di beni e servizi essenziali – basta alzare l’importo medio mensile dell’attuale Reddito di inclusione (quello del governo Gentiloni) da 206 a 396 euro al mese. Per un single significa passare da 150 a 316 euro, per un nucleo di quattro persone da 263 a 454. “Il principio guida è l’adeguatezza: nessuno deve più restare privo delle risorse necessarie a raggiungere una condizione di vita minimamente accettabile, cioè ad uscire dalla povertà assoluta”, scrive l’Alleanza nel documento presentato al governo. 

Il reddito di cittadinanza versione Cinque Stelle rischia invece di essere troppo generoso ma poco mirato. Secondo la stima del Sole 24 Ore, per una famiglia con due genitori disoccupati, due figli a carico e con la casa in affitto arriva a 18mila euro annui. Una cifra assurda, che in molte zone d’Italia non è neppure confrontabile con i redditi da lavoro medi del territorio.

Questo genere di storture derivano dal fatto che tutto l’impianto è pensato per sostenere i disoccupati, non i poveri. Che a volte sono anche disoccupati, ma per conseguenza degli stessi fattori che li hanno resi poveri (dipendenze, traumi, solitudini, problemi sanitari o psichici) e che quindi non si salvano soltanto facendo loro l’offerta di un impiego.

Ossessionati dalla richiesta di vincoli e paletti che arriva dagli scettici (soprattutto al Nord), i Cinque Stelle hanno impostato il loro reddito di cittadinanza tutto sui centri per l’impiego e – ora – anche sulle agenzie del lavoro private, dimenticando completamente quelli che dovevano essere i primi beneficiari della misura, cioè i poveri. Fateci caso: in tv non avete mai sentito Luigi Di Maio o Laura Castelli parlare di assistenti sociali o sanitari. Perché dal loro orizzonte i poveri, che di quei servizi sono beneficiari a differenza dei disoccupati, sono scomparsi. Finora, con il Rei, sono stati gli assistenti sociali i primi a prendere in carico le famiglie che fanno domanda per il sussidio. E in cambio della carota dell’assegno mensile, riescono a mettere sotto controllo la situazione dei figli minori, a verificare le condizioni di vita in casa, a identificare eventuali situazioni di disagio. Tutte cose impossibili anche nell’ipotesi che il sistema di ricerca del lavoro e formazione funzioni perfettamente fin dal primo giorno. La app Ms Works dello Stato americano del Mississippi che è il modello di ispirazione dei Cinque Stelle aiuta a trovare il lavoro più compatibile con le proprie caratteristiche. Ma se il disoccupato è anche alcolizzato o se la disoccupata ha un familiare a carico che non sa a chi lasciare, la app miracolosa non risolverà i suoi problemi.

Il sottosegretario all’Economia M5s Laura Castelli, a Otto e Mezzo, non ha saputo rispondere alla domanda di Lilli Gruber: “State stampando le tessere per il reddito di cittadinanza?”. Ma la vera questione a cui lei, Di Maio e tutti gli altri dovrebbero affrontare è: “Che fine hanno fatto i poveri nel vostro reddito di cittadinanza?”.

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M5s: “Contro di noi brutale delegittimazione da parte di lobby e banchieri”

Bisogna farsi sentire per contrastare la “brutale” strategia contro il Movimento 5 Stelle “messa in atto da quelle lobby, famiglie di grossi prenditori e banchieri” grazie “all’unico potere che gli è rimasto in mano, il quarto, quello mediatico“. Con “un post su Facebook, Twitter o Instagram con l’hashtag #IoNonCiCasco” perché “devono capire che gli italiani non si fanno più prendere per il culo”. È quando si legge sul blog delle Stelle che si scaglia contro gli attacchi dei media nei confronti del Movimento.  “La delegittimazione – si legge online – è il metodo utilizzato dai poteri autoritari per far fuori i loro avversari”. Ora, dice il M5s “quello che ci salva è la possibilità offerta dai social media di poter parlare direttamente con i cittadini”. Un post che esce nei giorni in cui è stato sollevato dalle Iene il caso dei lavoratori in nero all’interno dell’azienda del padre di Luigi Di Maio, Antonio. E proprio lui, parlando al Corriere difende il figlio ribadendo che non sapeva nulla degli operai in nero nell’azienda di famiglia, trasferita nel 2014 alla Ardima srl di Luigi e della sorella Rosalba.

Il post elenca i casi di “delegittimazione” di cui è stato vittima il Movimento. Riguardano i sindaci (“due anni di fango contro Virginia Raggi”), parlamentari (“ultimo arriva l’articolo sessista sull’Espresso contro Lucia Azzolina“), i ministri e i sottosegretari (“video tagliati ad hoc, foto rubate, piccole gaffe o lapsus ingigantiti ad arte e sbattuti in prima pagina”). E in questi giorni, si legge ancora online, viene colpito anche  Luigi Di Maio: “Essendo immacolato usano i parenti sbattendo in prima pagina suo padre per storie di 10 anni fa. E attenzione non è che Luigi sia sotto accusa per aver aiutato il babbo mentre era ministro, come è stato per Renzi (il cui babbo aveva incontrato mezza Consip mentre lui era premier) e Boschi (perché non querela De Bortoli che ha raccontato del suo incontro con l’ad di Unicredit per conto del padre?), ma per un vincolo di sangue. Ma i titoli sono confusi, ammiccano a qualcosa che non c’è e non esiste, sono fabbricati ad arte con un unico fine: la delegittimazione totale del MoVimento 5 Stelle. La risposta di Luigi è stata la massima trasparenza che ha spazzato via le menzogne e le falsità delle ultime ore”.

Il post – Nel post si legge che il sistema mediatico “è stato colpito la prima volta nel 2013 quando il MoVimento 5 Stelle grazie a 9 milioni di voti ha preso una quota del potere legislativo portando in parlamento 150 ragazzi onesti che non dovevano niente a nessuno. Da quel momento il sistema si è inceppato e ha iniziato a perdere colpi. La reazione è stata feroce. Il MoVimento, da semplice forza di opposizione, è stata additata da tutti i media (il quarto potere al servizio di quelli di sopra) come la causa di tutti i mali del Paese. Hanno iniziato a farci le pulci come mai avevano fatto con nessuno prima, ma rimanendo sempre ossequiosi con i partiti di governo, praticamente tutti gli altri. Ovviamente non hanno mai trovato nulla, se non massima trasparenza, massima correttezza e massimo rigore nel punire chi sbaglia”. Poi il blog insiste ancora: “Nonostante una campagna di fango mediatico senza precedenti nella storia della Repubblica, alle elezioni del 4 marzo 2018 il MoVimento 5 Stelle si è confermato la prima forza politica italiana con quasi il doppio dei voti rispetto alla seconda con quasi il 33% dei consensi da parte degli italiani”. E da allora, prosegue il post, “la strategia del quarto potere, quello mediatico, ha scalato di livello”. Il picco si è verificato “quando il MoVimento è entrato ufficialmente nel governo, condividendo la responsabilità del potere esecutivo con un’altra forza politica e stiamo osservando il culmine in questi giorni, in cui stanno per essere approvati i provvedimenti, voluti dal MoVimento, che cambieranno volto a questo Paese e dimostreranno tutta la pochezza dei partiti e delle persone che negli ultimi 20 anni hanno gestito il Paese”. Dunque la “strategia messa in atto da quelle lobby, famiglie di grossi prenditori e banchieri, una volta perso il controllo sul potere legislativo ed esecutivo, si è orientata esclusivamente all’uso brutale dell’unico potere che gli è rimasto in mano, il quarto, quello mediatico. E la strategia ha un nome: delegittimazione“.

E il testo prosegue sottolineando che “i rappresentanti del potere mediatico, in questi giorni, in televisione” hanno giustificato “il loro accanimento nei nostri confronti dicendo ‘voi siete il potere, per quello vi massacriamo’”. Poi si rivolge direttamente a loro: “Uno: voi ci avete massacrato anche quando eravamo semplice opposizione e sempre senza scoprire mai nulla o prendendo clamorosi granchi (vedi caso Beatrice Di Maio). Due: noi abbiamo la responsabilità di una parte del potere legislativo e di quello esecutivo, assegnataci dal popolo tramite libere votazioni, ma non siamo IL potere. E la parte di potere di cui siamo responsabili la esercitiamo in base alle leggi che rispettiamo e nell’assoluta consapevolezza di dover sempre rispettare il nostro datore di lavoro: i cittadini”. Poi addita la stampa, che “non sta facendo libera informazione disinteressata, ma sta compiendo un’opera di delegittimazione nei confronti di una forza politica per venire incontro agli interessi affaristici e politici dei loro editori. Il quarto potere è l’ultimo su cui possono contare i veri sconfitti alle elezioni. E lo esercitano in modo brutale, per il loro interesse esclusivo e a danno della qualità dell’informazione e dei cittadini”. Il post poi si avvia alla conclusione citando Malcolm X ( “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”) e ricordando che “la delegittimazione è il metodo utilizzato dai poteri autoritari per far fuori i loro avversari”. Infine una richiesta: “Un gesto simbolico, da fare sui social. Un post su Facebook, Twitter o Instagram con l’hashtag #IoNonCiCasco. Devono capire che gli italiani non si fanno più prendere per il culo. La nostra battaglia continua. E per la libertà di stampa interverremo con la legge contro il conflitto di interessi degli editori e garantendo l’equo compenso a tutti i giornalisti”.

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La Tv delle Ragazze stanche. Una satira vecchia per masse rincoglionite

Stati generali dell’arroganza, tv delle ragazze stanche e avvizzite.

Non si capisce perché Rai3, fresca la riconferma del bravo direttore Coletta, abbia dedicato la prime serate del giovedì a un progetto stantio che si conferma concepito per l’ottuagenarietà del pubblico televisivo senza alcuna speranza di attrarre altre generazioni.

Il solito birignao di Serena Dandini che 30 anni fa strappava un sorriso e odorava di rivoluzione, oggi è insopportabilmente, disperatamente dedito alla difesa dell’ancien regime. No, anzi, peggio, al discredito a tutti i costi di chi – al governo – sta cercando, faticosamente, di cambiare le cose in Italia.

Nell’ultima delle quattro puntate del programma (quella che ho visto io) non c’è stato un solo sketch che non abbia avuto come target da colpire e affondare qualche politico del Movimento 5 Stelle o qualche iniziativa di governo messa in campo in questi sei mesi.

E’ vero, la satira è nata per colpire il potere e metterlo alla berlina, ma questo programma rappresenta esattamente il contrario. E’ l’espressione del potere vecchio e logoro di partiti ormai terminati dagli elettori che non ne vogliono però sapere di essere disarcionati e perciò buttano in campo tutti i loro vecchi campioni.

Sono suonati e noiosi ma i vecchi davanti agli schermi tv ormai non se ne accorgono più. A loro basta essere intrattenuti con qualcosa di solidamente noto, confortevole, apparentemente rivoluzionario per sentirsi ancora vivi, protagonisti di una stagione che li ha sorpassati da anni.

Monologhi sul cancro o decaloghi del sessismo cercano di nobilitare un programma che sa di canfora e antitarme ma sono anche questi rappresentazioni del peggiore conformismo buonista televisivo.

In mezzo alla banalità delle battutacce antigovernative e dei cliché stantii, a salvarsi – come al solito – è soltanto Corrado Guzzanti, da sempre impegnato a rappresentare la miseria di tipi e situazioni umane, non certo nella critica politica ed è questa forse la satira più politica che si possa fare.

Naturalmente, la mia è una voce fuori dal coro, ché il peana di tutti i giornali, giornaloni e giornaletti online glorifica il ‘grande ritorno’ delle ragazze allineate dietro la pedante Dandini.

Anche questo è il segno che il processo di rincoglionimento delle masse continua e la Rai è ancora e sempre il suo profeta.

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giovedì 29 novembre 2018

M5s-Lega, in Toscana lite su tutto: dai rifiuti all’aeroporto. E Ceccardi ora lancia Del Debbio per conquistare la Regione

La politica dei due forni di andreottiana memoria rivive nel disegno politico di Matteo Salvini: al governo con il M5s ma nei Comuni e nelle Regioni alleati con Berlusconi e la Meloni. Un esempio istruttivo viene dalla Toscana. Qui domenica la giovane consigliera regionale della Lega Elisa Montemagni, 32 anni, ha fornito, in un’assemblea leghista, la migliore descrizione della politica dei due forni secondo Matteo (Salvini): “Quello che abbiamo fatto in questi anni è scardinare alcuni sistemi. A livello nazionale c’è stato bisogno di qualcun altro, ovvero del M5s. A livello locale crediamo di potercela fare con la naturale alleanza di centrodestra”, ha spiegato la Montemagni alla Nazione. Il divo Giulio Andreotti non avrebbe potuto dire meglio e soprattutto osare con così tanta chiarezza. E il forno toscano per la Lega di Susanna Ceccardi, la sindaca di Cascina, ha già un possibile titolare: Paolo Del Debbio, faccia nota della tv berlusconiana. Lui il nome oggi più gettonato per la guida del centrodestra a trazione leghista nella sfida alla regionali del 2020. La Ceccardi lo ha definito un ottimo candidato e se Salvini politicamente lo benedirà, la Lega toscana lo appoggerà.

Addio a Luigi Di Maio e al suo proconsole toscano Giacomo Giannarelli, capogruppo regionale del M5s. La leonessa di Cascina vira verso Del Debbio, 60 anni, lucchese, la cui trasmissione su Rete 4, Quinta colonna, sarebbe stata soppressa dai vertici di Mediaset, perché ritenuta troppo sbilanciata a favore di populisti e sovranisti. Dal video al voto il passo non è poi così lungo e Del Debbio, sotto l’egida salviniana, torna sul proscenio politico toscano, calcato già nel 1995 quando, alle elezioni regionali, capitanò il Popolo delle Libertà di Berlusconi contro Vannino Chiti, candidato del centrosinistra. Gli andò male, riportò solo un modesto 36 per cento, ma erano altri tempi mentre oggi la Lega anche in Toscana va a gonfie vele (almeno nei sondaggi).

I due forni leghisti non sono una grande novità, la strategia di Salvini appare abbastanza chiara, ma la Toscana la rende esplicita, forse oltre le sue reali intenzioni e convenienze. Grazie soprattutto alla Ceccardi. La sua ombra, il suo braccio destro, la pasionaria verde. Domenica a Firenze si correva la maratona cittadina ma alla Ceccardi piacciono i cento metri e a pochi mesi dalle amministrative di Firenze, Livorno e Prato e ad un anno e mezzo dalle Regionali la  commissaria toscana della Lega ha deciso di trasformare la Toscana in un laboratorio del salvinismo politico.

Così non passa giorno che Lega e M5s non litighino. In Regione come a Grosseto, a Prato come a Livorno. “Rifiuti, inceneritore di Scarlino, manutenzione del verde, persino eventi culturali. A Grosseto M5s e Lega litigano su tutto”, racconta Leonardo Marras, grossetano, capogruppo regionale del Pd. Per non parlare di Livorno dove l’attacco leghista al sindaco pentastellato Filippo Nogarin sulla chiusura dell’inceneritore prevista nel 2021 è quasi quotidiano. “Quattro anni di fallimenti”, è il giudizio della Lega. “Il Carroccio farebbe sprofondare la città nel Medioevo”, è la risposta del M5s.

Di strappo in strappo – dagli inceneritori all’aeroporto di Firenze -, in Toscana i seguaci di Salvini e Di Maio vivono da separati in casa e non si riesce a capire se l’eccesso di polemica è il prezzo pagato alla visibilità della Ceccardi o il segnale di una caduta prossima ventura dell’alleanza gialloverde a livello nazionale. “A volte – dice un leghista fiorentino, ex bossiano, oggi all’opposizione della sindaca – i due forni se non li sai maneggiare bene rischiano di bruciarti”.

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Di Maio, sequestrati i terreni di famiglia nel Napoletano: c’erano rifiuti inerti. Verifiche in corso su regolarità dei ruderi

Sopralluogo e sequestro. La vicenda dei terreni della famiglia Di Maio a Mariglianella ha avuto uno sviluppo per certi versi inatteso. In mattinata tre agenti della polizia municipale del comune in provincia di Napoli si sono recati in corso Umberto 69, nel suolo di cui è comproprietario il padre del vicepremier Luigi Di Maio. Il motivo della visita era il sopralluogo chiesto dal sindaco della città per verificare se alcuni ruderi presenti sul terreno in questione fossero abusivi, come riportato in un articolo de Il Giornale. Gli agenti sono arrivati intorno alle ore 10 e all’interno del terreno hanno trovato 3 manufatti sui quali si sono concentrate le verifiche della municipale. Contestualmente, però, i vigili hanno deciso di sequestrare le aree in questione, dove erano stati depositati rifiuti inerti. A renderlo noto è stato il comandante della Polizia municipale, il quale ha anche sottolineato che sono ancora in corso gli accertamenti da parte dell’ufficio tecnico sugli immobili. Il sequestro, quindi, è avvenuto solo per la presenza di calcinacci, macerie, residui da demolizione e di cantieri edili. Al sopralluogo dei vigili erano presenti anche i responsabili dell’ufficio tecnico comunale e un rappresentante della famiglia Di Maio. Fuori dai terreni dei Di Maio anche alcuni giornalisti, che – come ricostruisce l’agenzia di stampa Ansa – sono stati invitati ad allontanarsi dagli abitanti della zona, che hanno sottolineato come “Di Maio è l’orgoglio della nostra nazione“.

La vicenda dei ruderi sui terreni di famiglia (proprietari sono il padre e una zia del vicepremier) è stata resa nota da Il Giornale, secondo cui i manufatti in questione potevano essere abusivi. Da qui l’azione del sindaco di Mariglianella (Felice Di Maiolo, di Forza Italia), che ha inviato la pulizia municipale. Secondo Repubblica, inoltre, su quella proprietà risulta anche un’ipoteca per una cartella di Equitalia per una somma di 172mila euro. Il padre del vicepremier ha assicurato che chiarirà tutto, ma nel frattempo il figlio Luigi è stato chiamato a rispondere anche di questo nella puntata di Di Martedì andata in onda il 27 novembre. Il capo politico del Movimento 5 Stelle ha spiegato che in quel immobile hanno vissuto i suoi genitori e i suoi nonni dopo il terremoto del 1980: “Ho detto a mio padre che tutto quello che si dovrà fare si farà e di quello che è stato fatto ne risponderà mio padre” ha specificato il vicepremier. Che poi ha concluso: “L’ipoteca da 172mila euro? A questo punto significa che quel terreno andrà all’asta“.

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mercoledì 28 novembre 2018

Zingaretti, la mozione di sfiducia è una cosa seria: caccia ai “Responsabili” per salvare secondo mandato e corsa nel Pd

Sembrava una boutade. Un atto dimostrativo. Una forma di protesta contro quel governatore così “aperto” alle opposizioni, chiusosi eccessivamente dopo il cosiddetto “patto d’Aula” con i due consiglieri di centrodestra passati al gruppo Misto. E invece, il sassolino della mozione di sfiducia a Nicola Zingaretti si sta trasformando in una specie di tsunami che potrebbe spazzarne via, dopo appena 9 mesi, il secondo mandato da presidente del Lazio e verosimilmente, di conseguenza, anche le velleità di diventare segretario del Pd. Una mozione firmata quasi controvoglia dai consiglieri d’opposizione, i quali in privato ancora ieri maledivano l’ego fuori controllo dei propri capigruppo. Fatto sta che, da presidente blindato e “inattaccabile”, ora zar Nicola rischia addirittura di non mangiare il panettone.

Nostalgia della viarella
Un atto dimostrativo, dicevamo. “Zingaretti è impegnato nella corsa per la segreteria del Pd e ha tradito i suoi elettori, non pensa più alla Regione”, la ragione ufficiale. La scorsa settimana, da un’idea del socialista Stefano Parisi e del fittiano Massimiliano Maselli, i cinque capigruppo (ci sono anche Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega) presentano la mozione di sfiducia. Il retroscena, in realtà, è legato a quella che Sergio Pirozzi, nella sua goliardia montanara, aveva definito la viarella, ovvero il via vai dei consiglieri d’opposizione dagli uffici dei big di maggioranza quando l’anatra zoppa – Zingaretti è stato eletto senza maggioranza – costringeva il governatore a un dialogo costante e ampio con l’opposizione. La viarella finisce quando, a fine luglio scorso, il vicepresidente Massimiliano Smeriglio porta a casa il cosiddetto “patto d’Aula”, con il quale la maggioranza si accorda con due consiglieri d’opposizione in rotta con i rispettivi gruppi, Enrico Cavallari e Giuseppe Cangemi. Iniziano mesi di malcontento. La dialettica politica frena, l’infornata di personale in Giunta ritarda le assunzioni in Consiglio e da destra si inizia a scalpitare. Il vaso trabocca il 31 ottobre, quando Zingaretti nomina il 76enne ex Pdl, Gianni Giacomini – in quota Cangemi – presidente del Parco di Veio. Apriti cielo.

Lombardi sfida i “transfughi”
Da destra vogliono dare un segnale. Così presentano la mozione in cui se la prendono con i due transfughi (che dovrebbero votargliela) e chenon condividono con il M5s. Niente di serio, sembra. Ma il sassolino diventa onda anomala quando il venerdì sera la capogruppo pentastellata, Roberta Lombardi, annuncia: “Voteremo a favore della sfiducia”. Anche se, dice, “sappiamo che quasi sicuramente non passerà, perché attualmente sono proprio due ex consiglieri del centrodestra” a reggere la maggioranza. Della serie: noi la votiamo, ma ti pare che l’approvano? Qui la vicenda sale di livello. Se qualcuno si fosse preso la briga di sentire i due “transfughi” passati al Misto, avrebbe capito che il loro sostegno a Zingaretti non era così scontato. E infatti ieri mattina più di qualcuno ha iniziato a mettersi le mani nei capelli. Perché, seppure off the records, Cangemi fa sapere che voterà la mozione, non essendo mai uscito davvero da Forza Italia – era solo in rotta con il capogruppo Antonello Aurigemma – e trovandosi in accordo con Antonio Tajani. Mentre Cavallari starebbe trattando con Matteo Salvini in persona un rientro nella Lega dalla porta principale. Lo stesso Pirozzi sarebbe pronto per vestire i panni di “top player” nella squadra leghista.

Si cercano i “responsabili”
Lo tsunami sta arrivando e, come per ogni catastrofe imminente, serve una unità di crisi permanente. Già lunedì mattina Nicola Zingaretti ha incaricato il presidente del consiglio regionale Daniele Leodori, il capogruppo Pd Mauro Buschini e il vice-governatore Massimiliano Smeriglio di occuparsi praticamente solo di questo. Anche perché proprio Leodori è stato costretto dalla Lega a convocare una riunione dei capigruppo per giovedì mattina per calendarizzare un consiglio straordinario sui fatti di San Felice Circeo. E’ possibile che già il 13 dicembre possa essere discussa la mozione. Il gruppo regionale del M5s si è riunito per discutere il da farsi. In cambio del voto compatto, Lombardi potrebbe chiedere a Luigi Di Maio una sorta di “dispensa speciale” per far sì che i 9 mesi passati alla Pisana non siano validi come secondo mandato per praticamente tutti i consiglieri. Garantendo a tutti la ricandidatura. A quel punto i democratici dovrebbero ributtarsi uno a uno sul centrodestra.

L’asse nazionale e il fuoco amico
Viste le velleità nazionali di Zingaretti, sulla partita si sono tuffati tutti i principali leader. I rumors indicano in prima fila Matteo Salvini – che vorrebbe prendersi il Lazio come dimostrazione di forza – e Antonio Tajani, i quali stanno già stilando le candidature per le Europee. Ma in partita è anche Luigi Di Maio, impegnato a spezzare il possibile futuro asse fra Nicola e Roberto Fico: quale occasioni migliore? E poi c’è Matteo Renzi, che fino a ieri non aveva più alcun controllo verso i consiglieri del Pd. Certo che, in una situazione del genere, dove conta anche un voto (o una assenza) tutti sono pronti ad alzare il prezzo, alla luce della “scarsa considerazione” nutrita dalla giunta verso il consiglio negli ultimi mesi. Un “mercato delle vacche”, come l’ha definito qualcuno ieri pomeriggio, che potrebbe mettere in crisi anche il miglior Zingaretti.

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J-Ax: “Credevo nel Movimento 5 Stelle ma oggi non riesco ad accettare l’unione con la Lega. E’ un governo di destra che fa proclami come 50 anni fa”

“La situazione politica italiana mi preoccupa molto perché questo governo non dovrebbe essere né di destra né di sinistra ma si comporta, anzi fa proclami, come un governo di ultra destra di 50 anni fa”, parola di J-Ax che in questi anni non ha mai nascosto attraverso le canzoni, le interviste e sui social le proprie proprie opinioni. Credeva nel Movimento 5 Stelle che aveva apertamente sostenuto ma dal quale adesso si sente deluso: “Li appoggiavo perché credevo nell’idea da cui erano partiti, ma oggi non riesco ad accettare l’unione con la Lega. Sono due mondi troppo distanti. La Lega nasce per creare un’emergenza che non c’è, per trovare un capro espiatorio, un nemico comune per raccogliere consensi. Sono due visioni inconiugabili ma che pur di governare sono state messe nello stesso contenitore. E questo a scapito del Movimento 5 Stelle”, ha dichiarato il rapper nel corso di un’intervista al Corriere Tv.

Già lo scorso settembre a Otto e mezzo aveva espresso molti dubbi sull’alleanza con la Lega: “Vederli al governo con Salvini è stato un trauma, è stato come svegliarsi e scoprire che Sophia Loren s’è fidanzata con un concorrente di Tempation Island”. Alessandro Aleotti, questo il vero nome del cantautore, si definisce politicamente ibrido: “Ho tanti valori che si possono definire di sinistra ma anche tante idee che per quelli di sinistra potrebbero definire di destra. Per esempio, io sono per la liberalizzazione delle armi e delle droghe leggere, due cose che sono in conflitto con l’appartenenza alle categorie tradizionali. In realtà lo scontro tra destra e sinistra non è che uno specchietto, un modo per tenere lontane le persone dai problemi veri. Lo scontro oggi deve essere tra progressisti e conservatori. E anche a sinistra sono nascosti tantissimi conservatori”.

Nel suo ultimo libro “Consigli a me stesso-I miei due centesimi“, titolo che richiama alle opinioni non richieste dell’anchorman dei Simpson Ken Brockman, si schiera con chi lotta per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali: “I peggiori sono quelli che dicono che gli omosessuali ok ma la famiglia è solo quella tra uomo o donna: ecco quelli sono peggio dei neonazisti che almeno si dichiarano apertamente omofobi. Fosse per me gli omosessuali potrebbero sposarsi, avere figli e stare chiusi armati in un bunker adorando Satana”

Nel corso della chiacchierata rivela di aver previsto in anticipo la vittoria di Trump perché frequentatore del cuore dell’America dove la classe media era arrabbiata: “Finché la sinistra non si occuperà della felicità degli italiani non farà altro che agevolare i suoi avversari“, ha concluso il cantante.

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Operai in nero nella ditta dei Di Maio, tutti gli aspetti da chiarire nella vicenda: dalla causa in corso al contratto di Luigi

Luigi Di Maio sapeva della causa intentata contro la società di cui è socio al 50% da uno dei lavoratori tenuti a nero dal padre? Il vicepremier ha chiesto al suo genitore se quello di Salvatore Pizzo fosse l’unico caso di dipendente senza regolare contratto? L’attuale ministro del Lavoro quando presenterà i documenti che certificano la sua regolare assunzione quando ha lavorato da muratore nella ditta del padre? All’indomani del nuovo servizio delle Iene e di altri approfondimenti giornalistici sulla questione ci sono ancora degli aspetti da chiarire sulla vicenda dei lavoratori in nero tenuti tra il 2008 e il 2010 dal padre del capo politico del M5s.

LA CAUSA CONTRO ANTONIO DI MAIO
Sul Corriere della Sera di mercoledì 28 novembre sono riportati particolari sinora inediti sulla questione della causa intentata da Domenico Sposito contro Antonio Di Maio, il padre del vicepremier. Il lavoratore ha dichiarato alle Iene di aver lavorato per tre anni per la Ardima Srl, la società della famiglia Di Maio, che fino al 2012 era intestata a Paolina Esposito (la madre di Luigi) e successivamente passata a Luigi e alla sorella Rosalba (entrambi sono soci con il 50% delle quote). Nella fattispecie, Sposito ha sostenuto di aver lavorato dal 2008 al 2010 per otto ore al giorno per la ditta del vicepremier: 4 ore pagate secondo regolare contratto, le altre 4 in nero. Terminato il rapporto di lavoro, nel 2013 il dipendente si è rivolto ai giudici di Nola per chiedere la regolarizzazione. La sentenza di primo grado è arrivata nel 2016 e ha dato torto a Sposito, che ha deciso di fare ricorso (udienza prevista nel 2020) non accettando la proposta di transazione avanzata dal padre di Luigi Di Maio. Che ha assicurato alle Iene di non saperne nulla, ma ha garantito che anche in questo caso – come in quello di Salvatore Pizzo – chiederà informazioni al padre e verificherà tutto.

COSA HA DETTO IL PADRE DI DI MAIO AL FIGLIO
Altro interrogativo: perché il vicepremier non ha chiesto al padre se quello di Salvatore Pizzo fosse l’unico caso di lavoratore a nero? A specifica domanda delle Iene, Di Maio ha dichiarato di aver chiesto al padre delucidazioni sulla vicenda di Pizzo perché solo di quella era a conoscenza. Dunque il padre del vicepremier ha continuato a mentire con suo figlio anche dopo il primo servizio delle Iene sul lavoro nero nella ditta di famiglia? A leggere il retroscena del Corriere della Sera firmato da Alessandro Trocino, sembrerebbe proprio di sì, tanto che Di Maio sarebbe stato protagonista di una lite telefonica con il padre Antonio, accusato di avergli mentito e di avergli fatto fare brutta figura con tutti. Sempre nell’articolo del quotidiano di via Solferino, poi, vengono raccontati i malumori interni al Movimento 5 Stelle, con molti parlamentari irritati soprattutto per il fatto che Luigi Di Maio non ha mai ceduto le quote della società di famiglia, andando incontro a un potenziale conflitto di interesse. Partecipazione societaria che, tra l’altro, secondo il Corsera non è stata dichiarata nei curricula ufficiali.

DI MAIO ERA REGOLARMENTE ASSUNTO QUANDO HA LAVORATO PER IL PADRE?
Nel servizio delle Iene, Filippo Roma ha chiesto al ministro anche un altro particolare: quando d’estate ha lavorato per il padre era regolarmente assunto? “Se si venisse a scoprire che un ministro del Lavoro ha lavorato in nero ci crollerebbe il mondo addosso” ha detto l’inviato, con il capo politico del Movimento 5 Stelle che ha assicurato di essere pronto a fornire tutti i documenti (libretto di lavoro e assicurazione) che testimonierebbero la regolarità delle sue prestazioni.

IL RUDERE DI FAMIGLIA A MARIGLIANELLA
Se il Corsera punta sulla vicenda dei lavoratori in nero, la Repubblica invece si concentra sulla vicenda del rudere rilevato dalla polizia municipale di Mariglianella nei terreni di proprietà del padre e della zia dell’attuale numero uno del M5s. Dopo un articolo del Giornale, gli agenti del comune in provincia di Napoli stanno verificando se i manufatti siano abusivi. Sui terreni, scrive Repubblica, risulta anche un’ipoteca per una cartella di Equitalia per una somma di 172mila euro. Il padre del vicepremier ha assicurato che chiarirà tutto, ma nel frattempo il figlio Luigi è stato chiamato a rispondere anche di questo nella puntata di Di Martedì andata in onda martedì. Di Maio junior ha spiegato che in quel immobile hanno vissuto i suoi genitori e i suoi nonni dopo il terremoto del 1980: “Ho detto a mio padre che tutto quello che si dovrà fare si farà e di quello che è stato fatto ne risponderà mio padre” ha specificato il vicepremier. Che poi ha concluso: “L’ipoteca da 172mila euro? A questo punto significa che quel terreno andrà all’asta“.

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martedì 27 novembre 2018

Calabresi a Di Maio: “Ha querelato mio padre anziché me. Questo dà l’idea dell’approssimazione con cui fate le cose”

Battibecco vivace a Dimartedì (La7) tra il vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, e il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, sulla libertà di stampa e sul rapporto tra politica e giornali. Calabresi, alle battute finali del confronto, ricorda di avere ricevuto due querele da Di Maio e tre da Casaleggio. E aggiunge, porgendo a Di Maio alcuni fogli: “La querela relativa caso di Raffaele Marra gliela do adesso, così la riguarda e me la rimanda corretta, perché voi avete fatto causa a un signore che si chiama Luigi Calabresi, non Mario Calabresi. Luigi Calabresi era mio padre, che, come saprà, non c’è più da 40 e rotti anni”.
“E’ un errore formale” – replica di Maio – “tanto è vero che la causa sta andando avanti e non è stata invalidata”.
E il direttore di Repubblica ribatte: “Questo errore, però, dà l’idea dell’approssimazione con cui fate le cose. Dovreste fare le cose in un altro modo, con un’altra serietà”.
“Guardi, se lei vuole, le mostro centinaia di articoli che raccontano come voi date le notizie in maniera approssimativa”, risponde il ministro M5s.

Di Maio, poi, si sofferma sulla vicenda del padre, rispondendo al video di Maria Elena Boschi: “Ci vuole molta calma per rispondere all’ex ministra Boschi. Sappiamo, dalla commissione d’inchiesta sulle banche e dal giornalista Ferruccio de Bortoli, che la signora in questione andava da Unicredit e Consob per chiedere una mano per la banca del padre. In questo caso, erano i figli che cercavano di aiutare i padri che avevano fatto malefatte e facevano malefatte anche loro“.
E aggiunge: “Se mio padre ha sbagliato 10 anni fa, io prendo le distanze dal suo comportamento ma non da mio padre, perché gli voglio bene. Però io oggi non sto aiutando mio padre a coprire quel fatto, anzi porto le carte alle Iene e mi metto a disposizione. Se avessi saputo questa cosa, non l’avrei tenuto nascosta. Al ministero del Lavoro sotto di me ho l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Avrei fatto come la Boschi, se avessi utilizzato l’Ispettorato per coprire mio padre. A capo dell’Inl io ho nominato un generale dei carabinieri che non fa sconti a nessuno”.
Di Maio spiega: “Entro fine anno, visto lo stato dell’azienda, che in questo momento non sta lavorando, io e mia sorella la chiuderemo. Mi dispiace che mio padre non mi abbia detto di altri casi. Ciò che è successo non lo conoscevo ma non mi permetterei mai di chiedere alle Iene di non fare andare in onda un servizio, come qualcuno in passato al governo ha fatto, bloccando alcuni servizi del programma. Anzi, vadano avanti, io sono a loro disposizione“.

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Operai in nero nella ditta dei Di Maio, il vicepremier: “Ho preso le distanze dal fatto, ma ovviamente non da mio padre”

“Ho preso le distanze dal fatto, ma ovviamente non da mio padre. Non voglio scaricare mio padre”. Mentre le Iene stavano per mandare in onda il secondo servizio sui lavoratori in nero dell’azienda di Antonio Di Maio, il vicepremier si è difeso a Di Martedì, rispondendo alle accuse di Matteo Renzi e, soprattutto, di Maria Elena Boschi, che aveva augurato a Di Maio senior di non provare tutto ciò che suo figlio e i 5 Stelle avevano fatto provare a suo padre per il caso Etruria. “La signora Boschi andava in Consob a chiedere aiuto per la banca del padre: è un caso opposto al mio perché c’erano i figli che andavano a chiedere per i padri – ha contrattaccato Di Maio – Io oggi non sto aiutando mio padre a coprire i fatti: anzi porto le carte a Le Iene” a cui per altro “non ho mai chiesto di non mandare in onda i loro servizi come qualcun altro in passato ha fatto”. Se lo scambio di accuse rappresenta il risvolto politico della vicenda, l’inchiesta delle Iene è andata avanti, confermando quanto raccontato anche da Il Fatto Quotidiano. In tal senso, gli operai in nero sono almeno tre e non uno come emerso dal primo servizio del programma di Italia 1. Non solo. Uno di questi è ancora in causa con il padre del vicepremier e attuale ministro del Lavoro Luigi Di Maio.

L’INCHIESTA SUI LAVORATORI IN NERO – Dopo il servizio di domenica de Le Iene, a Pomigliano d’Arco non si è parlato d’altro: la vicenda di Antonio Di Maio e le assunzioni non regolari per la sua impresa edile hanno riempito le conversazioni nel popoloso comune alle porte di Napoli. Di parlare ai giornalisti, però, nessuno ne ha avuto voglia. Tutti erano in attesa di vedere il secondo video della trasmissione di Italia Uno. Le anticipazioni si sono rincorse per tutta la giornata, con la polemica politica e le accuse tra i vari schieramenti ad alimentare l’attesa. Il servizio è andato in onda poco prima delle 23 e ha confermato le indiscrezioni circolate nel pomeriggio. L’inviato Filippo Roma ha contattato altri tre lavoratori tenuti a nero dal padre di Luigi Di Maio tra il 2008 e il 2009, anni in cui l’attuale ministro non possedeva quote societarie dell’azienda di famiglia. I tre dipendenti in nero si chiamano Mimmo, Giovanni e Stefano. Il primo ha lavorato in nero per Antonio Di Maio per tre anni ed attualmente è in causa con il padre del vicepremier. Ha perso in primo grado (“Hanno cambiato il giudice in corsa ed è andata così” ha detto a Filippo Roma nella telefonata andata in onda), ma è pronto ad affrontare il ricorso. Il secondo lavoratore, Giovanni, ha è stato dipendente di Antonio Di Maio per otto mesi, mentre il terzo -Stefano – per un tempo non specificato. A quest’ultimo, però, è legato un aneddoto confermato dagli altri lavoratori sentiti dalle Iene: un giorno sul cantiere dei Di Maio è arrivato l’ispettore del lavoro e Stefano è dovuto scappare nei campi per non essere scoperto. Questo, ovviamente, è quanto sostengono i lavoratori sentiti dalle Iene. Il vicepremier Di Maio, da par sua, ha appreso dell’esistenza di questi altri tre casi oltre a quello di Salvatore Pizzo (e per quest’ultimo ha confermato che si è trattato di lavoro nero), ha condannato l’operato del padre e promesso di fornire tutta la documentazione necessaria per chiarire la questione. Contestualmente, però, il ministro del Lavoro ha tenuto a sottolineare che il suo papà ha assunto regolarmente molti lavoratori, per decenni. Concetto poi ripetuto anche a Di Martedì.

LE RISPOSTE DI DI MAIO – “Io di questi nomi non so nulla, così come non sapevo nulla di Salvatore Pizzo – ha dichiarato il capo politico del M5s a Le Iene – Ho fatto le mie verifiche e mi sono messo a disposizione, come immagino apprezzerete”. Il vicepremier poi ha detto di aver chiesto al padre spiegazioni sulla vicenda di Salvatore Pizzo: “Lui mi ha detto del caso di Pizzo ed è finita lì. Come sempre – ha aggiunto il ministro – sono a vostra disposizione: se avete altre informazioni io vi fornisco quello che serve. È chiaro ed evidente che io posso chiedere e fare le verifiche”. Le Iene, poi, hanno avanzato un’altra ipotesi, ovvero che lo stesso Luigi Di Maio – che spesso in passato ha dichiarato di aver fatto il muratore d’estate per l’azienda del padre – fosse stato impiegato a nero. L’inviato Filippo Roma ha infatti chiesto conto a Di Maio della “documentazione che dimostri il fatto che lui stesso non lavorasse in nero come muratore per la ditta di famiglia” basandosi sul fatto che “spesso il ministro ha raccontato di aver lavorato d’estate in azienda”. Di Maio ha assicurato che la sua posizione è sempre stata regolare, preannunciando di essere in possesso di tutte le carte per poterlo dimostrare. Anche in questo caso, il capo politico del M5s ha ripetuto il concetto negli studi di La7, dove era ospite da Floris a Di Martedì: “Quando ho lavorato per l’azienda di mio padre ero segnato regolarmente” con un contratto e “esibirò tutti i documenti del caso. In quel periodo non avevo chissà quale rapporto con mio padre – ha aggiunto – e non ero socio dell’azienda. Lo sono diventato cinque anni fa, quando ero già deputato della Repubblica ed ero a Roma”.

SCAMBIO DI ACCUSE TRA PD E M5S – Sempre dagli studi di La7 il vicepremier ha risposto alle accuse ricevute dal Pd, nella fattispecie dall’ex ministro Maria Elena Boschi: “La signora Boschi andava in Consob a chiedere aiuto per la banca del padre: è un caso opposto al mio perché c’erano i figli che andavano a chiedere per i padri – si è difeso Di Maio – Io oggi non sto aiutando mio padre a coprire i fatti: anzi porto le carte a Le Iene” a cui per altro “non ho mai chiesto di non mandare in onda i loro servizi come qualcun altro in passato ha fatto. Ho preso le distanze dal fatto – ha concluso – ma ovviamente non da mio padre. Non voglio scaricare mio padre, io non interferisco”. La risposta di Di Maio alla Boschi fa parte dei risvolti politici che ha avuto la vicenda, con l’opposizione (in particolare il Pd) decisa a portare il vicepremier a riferire in Parlamento. I 5 Stelle hanno fatto muro a difesa del capo politico. Alessandro Di Battista, ad esempio, ha difeso a spada tratta Di Maio: “Ha avuto una reazione da signore” mentre “il sistema lo attacca perché lo teme”.

Di Battista ha invece attaccato Matteo Renzi e Maria Elena Boschi: “Hanno la faccia come il culo” ha detto, facendo riferimento agli attacchi di Renzi padre e di Renzi figlio e dopo che la ex ministra ieri aveva augurato al genitore Di Maio di non provare tutto ciò che suo figlio e i 5 Stelle avevano fatto provare a suo padre per il caso Etruria. Boschi, a sua volta, ha risposto anche a Di Battista: “Leggendo le volgarità di Alessandro Di Battista capisco che in famiglia il fascista non è solo suo padre”. Tra le accuse incrociate di figli e padri (sulla vicenda sono intervenuti anche Di Battista senior e persino il papà del premier Giuseppe Conte), a cercare di placare gli animi ci ha pensato Matteo Salvini: “Quando si usa una vicenda familiare e privata per fare bagarre politica, non è mai un bel momento. Poi se ci sono stati degli errori ognuno risponderà dei suoi errori”. Intanto, mentre Antonio Di Maio ha detto in tv di aver recuperato tutti i faldoni che contengono la documentazione relativa ai suoi dipendenti, sarebbero stati avviati anche controlli sulla vicenda legata ai manufatti ‘fantasma’ che si troverebbero su un terreno di proprietà della famiglia Di Maio nel vicino comune di Mariglianella.

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Dl Sicurezza, passa la fiducia. E Salvini fa le prove di esultanza: “Sobrietà ragazzi… o saliamo sul balcone?”

Alla Camera dei deputati è il governo ha ottenuto la fiducia chiesta sul decreto Sicurezza, provvedimento rivendicato da Matteo Salvini. L’Aula della Camera ha confermato la fiducia con 336 voti a favore e 249 contrari. L’Assemblea è poi passata all’esame dei circa 140 ordini del giorno al testo, in gran parte presentati da Pd e Leu. Prima del voto, Salvini si è intrattenuto con alcuni esponenti della Lega come Nicola Molteni e il ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana, immortalato mentre sembra provare possibili ‘esultanze’: “Sobrietà ragazzi, sobrietà”, dice ridendo. E poi scherza, facendo il verso ai 5 Stelle: “Oppure saliamo sul balcone?”

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Di Maio, l’uomo che ha accusato il padre: “Ho votato M5s. Ho denunciato perché sui social ho litigato con un grillino”

Ho votato 5 Stelle alle passate elezioni perché in loro ho visto una immagine credibile e per voltare pagina, come hanno fatto milioni di italiani”. Sono le parole di Salvatore Pizzo, detto Sasà, intervistato da Giuseppe Cruciani a La Zanzara (Radio24). L’uomo, che ha accusato il padre del vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio di averlo pagato in nero, nega di aver votato 5 Stelle per ricevere il reddito di cittadinanza: “No, non mi serve. A me la politica non è mai servita. Io mi sono sempre rimboccato le maniche e ho lavorato onestamente. Io non ho denunciato il padre di Di Maio per uno scopo politico. L’ho fatto perché ho avuto un diverbio con un grillino sui social. Non mi è piaciuto il discorso di Di Maio sull’onestà. Perché mi sono deciso dopo tutti questi anni? Perché mi sono stufato di sentire sempre ‘onestà, onestà, onestà’. Questa parola mi ha fatto rabbia e così sono esploso”.

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Dl Sicurezza, Pd al M5s: “Vi dite contrari, ma chinate capo”. “Condividiamo gli obiettivi del decreto, noi coerenti”

Scontro in Aula alla Camera tra Pd e M5s, durante le dichiarazioni di voto per la fiducia al Decreto Sicurezza, provvedimento rivendicato da Salvini e dalla Lega. “Ora salite sui tetti a urlare che è stato approvato il decreto di un partito, non la legge del popolo. Un decreto della Lega, che va approvato senza modifiche e senza discussione”, ha attaccato sarcastico il deputato dem Emanuele Fiano. Per poi concludere: “Fate attenzione voi che vi dite contrari e poi chinate il capo. Noi non lo faremo, voteremo no”. “Questo decreto, se fosse stato scritto da un nostro ministro, forse avrebbe rivelato una sensibilità diversa, sarebbe stato impostato in modo diverso, ma avrebbe perseguito gli stessi obiettivi”, ha replicato Federica Dieni (M5s), rivendicando “coerenza” dopo il contratto di governo fatto con la Lega.

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Sondaggi, sorpresa per Livorno: la Lega primo partito. M5s fuori dal ballottaggio. Il Pd crolla di 30 punti in 4 anni

Ballottaggio centrosinistra-centrodestra, con la Lega primo partito. E il M5s fuori dal secondo turno decisivo per l’elezione del sindaco. Se si votasse oggi, Livorno – città simbolo della sinistra, a partire dalla nascita del Pci – sarebbe sottoposta a una nuova rivoluzione, ma questa volta con il timone girato verso destra. Lo dice a 7 mesi dalle elezioni un sondaggio pubblicato dal Tirreno ed elaborato da Swg, istituto di riferimento di varie testate nazionali, tra queste il TgLa7. Livorno dal 2014 ha un sindaco del M5s, Filippo Nogarin, che vinse a sorpresa proprio al ballottaggio ed è diventato un simbolo delle amministrazioni Cinquestelle anche a livello nazionale. Attualmente Nogarin, che dopo un periodo di riflessione ed incertezza ha annunciato di volersi ricandidare, sarebbe fuori dalla possibilità di proseguire con un secondo mandato. Naturalmente un sondaggio non misura la forza di un partito o di uno schieramento fino al centesimo, ma dà un’idea della tendenza, con un margine d’errore (in questo caso del 3 per cento) e con l’avvertenza dovuta al fatto che il 44 per cento degli intervistati non ha voluto esprimersi.

Cosa dicono i dati del sondaggio di Swg che ha coinvolto un campione di 900 livornesi? Al ballottaggio, oggi, andrebbero centrodestra e centrosinistra esattamente appaiati al 32 per cento.

Il centrodestra – come a livello nazionale – ha una motrice sola: la Lega, che sarebbe il primo partito (con il 24 per cento) in una città che peraltro è tradizionalmente legata alla solidarietà e all’accoglienza. Va sottolineata l’esplosione del partito di Matteo Salvini a Livorno: dallo zero per cento del 2014 (non aveva un suo simbolo in autonomia) al 2,2 delle Europee 2014 al 15,4 delle Politiche del 4 marzo fino a conquistare un elettore su 4. Gli alleati del Carroccio farebbero il resto: 6 per cento per Forza Italia, 2 per cento per altri partiti come Fratelli d’Italia o liste civiche.

Il centrosinistra potrebbe contare in buona parte sulle forze (residue si potrebbe dire) del Partito Democratico che però non andrebbe oltre il 23,5 per cento, frutto di un crollo che non si è mai arrestato negli ultimi 5 anni: nel 2014, alle Comunali, i democratici presero il 35,3 per cento, mentre alle Europee qui l’exploit fu in linea con il livello nazionale tanto che raggiunse il 53,4. Alle Politiche del 4 marzo il Pd prese il 28,9 per cento. Gli altri partiti o liste civiche di centrosinistra metterebbero insieme l’8,5 per cento.

Il Movimento Cinque Stelle, che esprime il sindaco Nogarin e la maggioranza che lo sostiene, non andrebbe oltre il 23,5, cioè la stessa quota del Pd. Sarebbe un bacino elettorale superiore a quello del 2014 perché al primo turno all’epoca il M5s prese il 19,2, ma sarebbe inferiore alla performance alle ultime elezioni politiche, quando i grillini presero il 28,6, in totale adesione con i valori nazionali.

Poi – come già nel 2014 e come accade ormai da forse vent’anni – a Livorno esiste un’area corposa di elettori che non si ritrova nel centrosinistra così com’è composto ora: da una parte c’è Buongiorno Livorno (la sinistra-sinistra, diciamo così) che prenderebbe il 9 per cento, la stessa cifra del 2014, dall’altra c’è il 2,5 Città Diversa, lista civica punto di riferimento di parte di associazionismo, volontariato, ambientalismo. Da capire se questi due soggetti politici possano avere un ruolo al ballottaggio o addirittura dal primo.

D’altra parte da studiare è proprio quanto avvenne nel 2014: dopo il primo turno in vantaggio c’era Marco Ruggeri, candidato del centrosinistra, col 40 per cento, davanti a Nogarin, che aveva il 19 e superò del 2,7 la lista di sinistra Buongiorno Livorno. E al ballottaggio Ruggeri rimase quasi fermo, mentre Nogarin poté contare sui voti in arrivo sia dalla lista di sinistra sia da parte dell’elettorato di centrodestra.

La strada da qui alle elezioni di giugno è ancora lunga. Il centrodestra attualmente non ha un candidato spendibile: servirebbe un’operazione come quella che la commissaria regionale leghista, la sindaca di Cascina Susanna Ceccardi, ha compiuto per Pisa, con la scelta di Michele Conti, ex An eletto sindaco con le parole d’ordine sulla sicurezza. Il Pd, dall’altra parte, ricalca il dinamismo della dirigenza nazionale: cioè zero. Dopo 5 anni sembra ancora ingessato, quasi in senso sanitario. Non è ancora stato deciso quale forma avrà la coalizione né esiste un’idea di un possibile candidato che possa tirare su le sorti del partito che proprio da qui, da una delle sue roccaforti, ha dato l’allarme più forte e peraltro inascoltato.

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Governo, Scanzi: “C’è crisi nel M5s. Deve dimostrarsi alternativo alla Lega ed è necessario che torni Di Battista”

M5s? C’è una insofferenza evidente del movimento nei confronti della Lega. Basti ricordare i vecchi rapporti tra di loro o quello che dicevano di Salvini Di Maio e Di Battista e viceversa. Quindi, secondo me, la norma è che prima o poi queste due forze politiche andranno l’una contro l’altra”. Sono le parole del giornalista de Il Fatto Quotidiano, Andrea Scanzi, nel corso di Otto e Mezzo (La7). E aggiunge: “L’aspetto che sembra un po’ calmare la situazione è questa apparente apertura di Salvini e di Di Maio sulla vicenda manovra, soprattutto da parte del leader della Lega. Ci sono però dei problemi evidenti nei 5 Stelle: è un elettorato diverso, eterogeneo, raccoglie destra e sinistra. C’è anche un problema di classe dirigente, ci sono ministri che si stanno rivelando platealmente inadeguati al loro ruolo, come Toninelli. Come riesce a ovviare a questa crisi? Secondo me, in due modi”.
Scanzi spiega: “Da una parte, il M5s deve dare la sensazione di essere comunque alternativo alla Lega e in questo senso i 5 Stelle hanno bisogno che torni al più presto Di Battista sul campo di battaglia. Non si sa ancora però cosa farà da grande: ritorna a dicembre, ma non si sa se rimane. Dall’altra parte, servono continue vittorie identitarie da parte del M5s, come la riforma sulla giustizia e altre bandierine, perché se non ottengono tante vittorie quanti sono i rospi che sta ingoiando il suo elettorato scenderà dal 32% al 28% e sempre più giù. E ricordiamo anche che mediaticamente Salvini è molto più bravo di Di Maio e di tutti gli altri 5 Stelle”.
La firma del Fatto si sofferma poi sui rapporti tra 5 Stelle e Pd: “E’ vero che i 5 Stelle in qualche modo hanno catalizzato inizialmente i delusi di sinistra. Adesso però c’è una forte antipatia reciproca tra l’elettorato del Pd e quello del M5s: sono due mondi che non parlano più. E anche molti che avevano votato M5s a marzo, come Fiorella Mannoia e Ivano Marescotti, si sentono delusi e detestano profondamente i 5 Stelle. Quindi, immaginare un giorno, tra 6 mesi o tra un anno, che un Pd eventualmente derenzizzato torni a dialogare coi 5 Stelle è possibile, ma oggi la vedo molto difficile. Sono due mondi che hanno litigato proprio in maniera profonda e radicale”.

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lunedì 26 novembre 2018

Global Migration Compact, Moavero apre alla ratifica ma la Lega dice no. Gli Usa e Visegrad hanno già detto: ‘Non firmiamo’

La Lega lo rifiuta, il ministro degli esteri, Enzo Moavero Milanesi, parla invece di “orientamento favorevole”. Il governo italiano non ha ancora preso una posizione ufficiale sul Global Compact on Migration firmato da 193 Paesi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016 e che dovrà essere adottato durante la prossima conferenza internazionale di Marrakech, il 10 e 11 dicembre. Si tratta del primo accordo mondiale che detta una linea comune sulle migrazioni internazionali. Ma all’atteggiamento possibilista del capo della Farnesina, che parla della necessità di maggiori “approfondimenti”, si oppone quello intransigente del Carroccio, primo su tutti il sottosegretario Guglielmo Picchi: il documento ha un “approccio nettamente in contrasto con gli obiettivi del governo italiano”, si legge nel report pubblicato a metà novembre dal suo Centro Studi Machiavelli.

Politica comune e maggiori tutele per tutti i migranti
Il documento, ribattezzato anche Dichiarazione di New York, parte dalla volontà di base di tutti i firmatari di creare una politica comune, a livello mondiale, sul tema delle migrazioni, portando avanti la convinzione che “nessuno Stato può affrontare il fenomeno migratorio da solo, proprio per la sua natura transnazionale”. Questo, si specifica nel testo, non vuol dire violare la sovranità nazionale, con i singoli Paesi che potranno continuare a operare e “definire l’immigrazione regolare o irregolare” in base alle proprie leggi e “in conformità al diritto internazionale”.

Il punto di partenza, però, è sempre la salvaguardia dei diritti e del benessere dei migranti: “Il Global Compact pone gli individui al centro”, tutelando il benessere dei migranti e dei membri delle varie comunità nei Paesi di origine, di transito e di destinazione per favorire una migrazione “disciplinata, sicura, regolare e responsabile”.

Tra le dieci linee guida che hanno ispirato il documento ci sono poi l’impegno per il rispetto dei diritti umani e la “lotta a tutte le forme di discriminazione, compreso il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza nei confronti dei migranti e delle loro famiglie”. Si parla poi dell’importante ruolo rivestito dagli immigrati nello sviluppo dei Paesi di destinazione, affermando che “le migrazioni contribuiscono alla realizzazione degli obiettivi dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

“Migrazione continua e limitazione della sovranità nazionale”. La Lega dice no
Nel report del Centro Studi Machiavelli si legge che l’approccio del Global Compact sarebbe “nettamente in contrasto con gli obbiettivi del Governo italiano” per diversi motivi. Innanzitutto perché “si propone di gestire una migrazione continua, senza mai affrontare questioni numeriche”, mentre l’obiettivo dichiarato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è quello di ridurre il più possibile i flussi migratori verso l’Italia. Se nel documento si invitano gli Stati a cooperare, gestire e migliorare il processo migratorio, l’obiettivo del Carroccio è quello di limitarlo attraverso politiche più restrittive.

Nel documento firmato dai 193 Paesi si legge inoltre che le migrazioni rappresentano un elemento fondamentale per favorire lo sviluppo dei Paesi di destinazione, mentre la Lega “rifiuta l’utilizzo dell’elemento migratorio come compensazione demografica”, respingendo anche il principio del “diritto di migrare” perché “potrebbe rivelarsi pericoloso e controproducente per l’Italia accettare ciecamente questo ordinamento”.

Altro timore dei verdi al governo è quello legato a una possibile violazione della sovranità nazionale. Nonostante il testo non sia vincolante e specifichi nelle sue dieci linee guida che questa sarà garantita, con i singoli Paesi che continueranno a poter promulgare autonomamente leggi sull’immigrazione e dare una loro distinzione di migranti legali o illegali, i detrattori della Dichiarazione di New York sostengono che nel documento si ritrovino spesso termini come “dovere” e “garanzia” che rischierebbero così di rendere la Dichiarazione più vincolante di quanto non dicano i suoi promotori. “Nessuno può imporci un’immigrazione incontrollata – ha affermato il capogruppo leghista in commissione Esteri alla Camera, Paolo Formentini – Il Global Compact non è altro che l’ennesimo tentativo di ingerenza nelle politiche nazionali. È anacronistico e socialmente pericoloso limitare la sovranità nazionale nella gestione dei flussi migratori. Allo stesso tempo è falso che il fenomeno della migrazione di massa sia positivo e vantaggioso per tutti”.

Formentini solleva anche un’altra preoccupazione del Carroccio e di altri Paesi che hanno espresso la propria opposizione al documento: la mancanza di una netta differenziazione tra rifugiati e migranti. “Occorre una netta distinzione tra rifugiati, per i quali le nostre porte sono e saranno aperte, e migranti economici e clandestini”. I principi inclusi nel testo si riferiscono a rifugiati e migranti, rifiutando quindi una distinzione in diverse categorie e promuovendo anche il rispetto dei diritti di coloro che entrano illegalmente nel Paese. Prendendo come spunto le critiche avanzate dal governo austriaco, il report del Centro Machiavelli sostiene che “il documento mira a limitare la sovranità nazionale sul tema migratorio, oltre a non differenziare a sufficienza tra migranti legali e non, orientandosi invece verso la creazione di un ‘diritto umano a migrare’”.

L’apertura di Moavero: “Non siamo ottusi, chiediamoci perché si migra”
Ben più aperta e possibilista è la posizione del ministro degli Esteri che il 21 novembre, rispondendo a un’interrogazione parlamentare sulla sottoscrizione del Global Compact, ha dichiarato che l’Italia ha “un orientamento favorevole”, anche se un ulteriore approfondimento è necessario prima di procedere con l’adozione. “Il Global Compact non sarà un atto giuridicamente vincolante – ha poi specificato – L’Italia ha sempre tenuto presente l’elemento importante di arrivare a una condivisione degli oneri nella gestione dei fenomeni migratori e una cooperazione rafforzata con i paesi di origine e di transito. Nel documento sono recepiti questi principi che portiamo avanti anche nel confronto europeo. Il presidente del Consiglio aveva espresso un orientamento favorevole”.

Posizione che non sarà piaciuta ai partner di governo leghisti, ma che il capo della Farnesina ha confermato pochi giorni dopo, in occasione del Forum Med di Roma: “Sulla questione dei migranti ho espresso una posizione eterodossa – ha dichiarato – Di fronte al migrante economico non dobbiamo essere ottusamente chiusi, dobbiamo porci la domanda del perché si migra”. Parole che contrastano, ad esempio, con quelle della deputata leghista Barbara Saltamartini secondo cui “non possiamo concedere a tutti il diritto di emigrare, indipendentemente dalla ragione che spinge a farlo”.

Usa, Australia e i Paesi dell’Europa dell’est: gli altri contrari
A supporto delle posizioni leghiste ci sono le critiche di attori di prim’ordine, uno su tutti gli Stati Uniti. Visto come un accordo partorito anche grazie al volere dell’ex presidente, Barack Obama, Washington ha fatto sapere già un anno fa che si sarebbe ritirata. “Le nostre decisioni sull’immigrazione devono essere sempre prese dagli americani e solo dagli americani”, aveva annunciato la rappresentante americana all’Onu uscente, Nikki Haley, inaugurando uno dei primi provvedimenti in nome dell’America First trumpiano. Il documento, aveva poi concluso, “non è in linea con le politiche per l’immigrazione e i rifugiati americane e con i principi dell’amministrazione Trump”.

Approccio simile a quello tenuto dal governo australiano, israeliano e da numerosi attori europei. Fra i più importanti c’è certamente l’Austria che già in passato aveva mostrato affinità con la Lega in tema di politiche migratorie. Proprio il premier Sebastian Kurz e il suo vice Heinz-Christian Strache hanno annunciato che Vienna non firmerà il documento che contiene elementi “diametralmente opposti alle nostre posizioni”: “La migrazione non è e non può diventare un diritto umano. Non si può ottenere tale diritto a causa del clima o della povertà”, aveva detto Strache a fine ottobre aggiungendo che il governo temeva anche per una possibile limitazione della sovranità nazionale.

Timore, quest’ultimo, che accomuna anche i governi di Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Polonia e Ungheria. Anche loro si sono dimostrati fortemente critici nei confronti della Dichiarazione e anche loro hanno annunciato che non firmeranno il testo in occasione della conferenza di Marrakech.

Twitter: @GianniRosini

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Caro Di Maio, è il karma: a forza di spargere fango prima o poi ti ritorna indietro

Il tempo è sempre galantuomo. E c’è una regola non scritta, una specie di karma che spesso accade. Un principio di causa-effetto, ossia quello che a forza di spargere fango ingiustamente prima o poi ti ritorna con forza indietro. Prendiamo i fatti. Sulla vicenda Consip e soprattutto su Tiziano Renzi (padre di Matteo) il Movimento 5 stelle ha usato toni duri e feroci. Solo per un piccolo esempio si può ricordare quanto dichiarava Di Maio. Senza alcun rinvio a giudizio e senza alcun processo, solo indagini poi archiviate, l’attuale vice ministro dava patenti di disonestà al padre di Renzi e chiedeva le dimissioni di Matteo. Fatti scollegati che non vedevano Matteo Renzi coinvolto in alcun modo. Nonostante ciò, accuse di ogni genere e da lì il grande moto: onestà, onestà, onestà.

Bene è bastato aspettare solo un anno è tante cose sono cambiate. Il padre di Renzi è stato scagionato completamente con richiesta di archiviazione. Nessuna scusa da parte dei Grillini anzi solo veleno. Ma guarda un po’ il destino, ora si scopre che un ex dipendente della società, dove Di Maio oggi è socio al 50% (Ardima Srl), lavorava in nero. Di Maio in questi anni si è sempre vantato della sua grande onestà e di quella della sua famiglia, ricordando che nella società di famiglia ha anche lavorato da giovane. Giusto, giustissimo. E in occasioni pubbliche, conferenza Confcommercio, esaltava l’impresa edile del padre e del suo ruolo innovativo, ossia, far sentire l’operario un piccolo imprenditore. Insomma, una storia già vista. Tanto bravi a sparlare e giudicare gli altri ma non ci si guarda a casa propria. Facile fare i grandi moralisti, alzare i toni dello scontro politico e fare sempre gli sciacalli per avvelenare i pozzi e aumentare i consensi.

In questi anni abbiamo visto toni e modi degni di Paesi incivili, bastava un avviso di garanzia per definire un’intera classe dirigente disonesta e ladra, un intero Partito corrotto. Mai un commento a fine processo ma sempre prima e poi mai una scusa. Responsabilità personali che si facevano ricadere su i figli senza alcuno scrupolo. Così anche per la Boschi e anche in quel caso il padre ha ottenuto l’archiviazione. Insomma, per anni a parlare di Renzi e Boschi per i fatti che vedevano coinvolti i genitori, accuse di ogni genere, richieste di dimissioni e poi? Tutto archiviato. Mai sentito un Grillino chiedere scusa.

Bene, oggi guarda lo scherzo del destino accade per la seconda volta a Di Maio. La prima è il condono per Ischia voluto da Luigi Di Maio, la cui famiglia già aveva beneficiato di un altro condono, nel 2006, per la casa del padre a Pomigliano d’Arco. Ora un ex dipendente dell’attuale società del vice-premier denuncia di aver lavorato in nero per il padre. E dice che altri lavoravano in nero. Di Maio durante l’intervista delle Iene in maniera poco dignitosa afferma che con il padre prima non c’era un bellissimo rapporto e da qualche anno ha recuperato. Discorso poco edificante, visto quello che diceva prima. In ogni caso le domande sarebbero tante.

Iniziamo. Dobbiamo usare gli stessi toni usati da voi per i casi Renzi e Boschi? Dobbiamo chiedere forse le sue dimissioni considerando che Di Maio oggi è il ministro del Lavoro e nella sua azienda (socio al 50%) si assumeva in nero? Dobbiamo chiedere se anche il condono fiscale, voluto dal suo governo, sarà utile alla sua società? Dobbiamo chiedere se quando lavorava nella società di suo padre era assunto regolarmente? Insomma, tante le cose da chiedere. Ma una cosa deve realmente finire ed è finita da tempo. La vostra tanto sbandierata onestà e verginità. Chiedete scusa e cambiate i toni. Non siete più credibili.

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Corleone, il caso Pascucci è quasi folcloristico. Ma deve far riflettere sui criteri di selezione dei 5 stelle

Il vicepremier, ministro e leader del M5s Luigi Di Maio non si è presentato al comizio che venerdì 23 novembre era in programma a Corleone, in Sicilia, in vista delle elezioni comunali. La decisione è stata presa dopo la pubblicazione di una foto del candidato sindaco del Movimento 5 stelle, Maurizio Pascucci, in compagnia del marito (un barista incensurato) della nipote del boss Bernardo Provenzano. Pascucci aveva pure detto che si può dialogare con i parenti che prendono le distanze dai mafiosi. Circostanze che non sono state svelate dai servizi segreti grillini né da quelli dello Stato: l’aspirante primo cittadino aveva fatto e detto tutto pubblicamente e, forse, ingenuamente. Però questo caso, quasi folcloristico, offre l’occasione per ragionare sui criteri di selezione usati dai pentastellati.

Per capirci, occorre una premessa. Corleone è un paese non lontano da Palermo. Deve la sua fama soprattutto al fatto che sono stati corleonesi alcuni tra più potenti capi della mafia, dal dopoguerra in poi. Tanto che per 50 anni e fino all’anno scorso nella Chiesa Madre c’è stato un banco donato dal capostipite del potere di Cosa Nostra, con tanto di targa: “Dottor Michele Navarra”. Un simbolo rispettato. Nel 2017 l’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi l’ha fatta rimuovere, in seguito alla segnalazione della Prefettura.

Dopo la Seconda guerra mondiale, proprio Navarra – classe 1905, medico – comandava una vasta alleanza di mafiosi, ma ben presto alcuni giovani corleonesi pretesero più potere. Il leader di quella nuova leva, Luciano Liggio, fondò un suo clan, dove i sicari più promettenti erano Salvatore “Totò” Riina e il già citato Bernardo Provenzano. Tutti nomi che hanno fatto la storia di Cosa Nostra. Fra il 1945 e il 1961 i regolamenti di conti provocarono 52 morti, molte altre persone scomparvero. Il “dottor Navarra” fu assassinato il 2 agosto 1958. 

 

Che cosa c’entrano Corleone e Navarra con l’imbarazzo di Di Maio? C’entrano, perché quel boss mafioso dimostra che le cosche da sempre sanno farsi strada in partiti, istituzioni, imprese e finanza. Alle elezioni regionali del 1947 Navarra sostenne gli indipendentisti siciliani, alle politiche del 1948 il Partito liberale, negli anni Cinquanta la Dc. Lasciò in eredità un metodo che non è mai cambiato, semmai si è raffinato. Parola d’ordine: infiltrarsi. Tanto che era legato alla cosca anche il sindaco Dc di Palermo Vito Ciancimino (1924-2002), nato a Corleone e democristiano nella corrente di Giulio Andreotti: arrestato nel 1984, grazie al pentito Tommaso Buscetta e al giudice Giovanni Falcone, per associazione mafiosa, fu condannato in via definitiva. Non solo: la vedova dell’ex sindaco, Epifania Scardino, nel 2010 disse ai pm Nino Di Matteo e Paolo Guido che il marito tra il 1973 e il 1975 avrebbe incontrato a Milano l’allora imprenditore Silvio Berlusconi tre volte, anche in sua presenza, per parlare di affari. Insomma, la storia della potente mafia corleonese arriva fino a oggi. Ora in Sicilia c’è una apparente “tranquillità”. Ma le organizzazioni mafiose continuano a fare affari, incassando decine di miliardi l’anno

Torniamo a Di Maio. Come ha scoperto che il suo uomo a Corleone era fuori rotta? Per caso. Ha fatto sapere il vicepremier: “Ho aperto il cellulare e tra le news c’era la notizia del nostro candidato sindaco M5S che voleva aprire al dialogo con i parenti dei mafiosi. E questa dichiarazione fa il paio con la foto sua con il nipote del boss Provenzano, uno dei capi della mafia”. Evidentemente, nessuno tra politici e militanti grillini siciliani aveva mai intuito qualche strano punto di vista da parte del candidato. Dunque, che cosa fa pensare ai dirigenti del M5s di essere immuni all’eventuale infiltrazione mafiosa? Il nodo sta nello stesso sistema di selezione – on line e/o plebiscitaria – dei candidati nelle elezioni locali e nazionali, pur dando per scontata la buona fede del Movimento. Con poche centinaia di consensi si viene prima messi in lista e poi eletti. Non si capisce quale sia il criterio usato – al di là del passaparola e della richiesta agli aspiranti candidati di non essere indagati o pregiudicati – per schivare gli eventuali infiltrati, tanto più che un mafioso sotto copertura apparirebbe di certo lindo, privo di legami familiari e incensurato. 

Non è un problema nuovo: “Un camorrista potrebbe gestire i voti sul portale”, disse già nel 2014 il deputato pentastellato salernitano Girolamo Pisano (non ricandidato nel 2018 per irregolarità nei rimborsi). In un’intervista affermò: “Le liste si riempiranno di mafiosi e camorristi, chi lo impedisce? Nessuno può garantirti che una persona con la fedina penale pulita non sia invece un malintenzionato. Se io fossi un bel capo camorrista, farei iscrivere i miei familiari sul blog, creerei di fatto una struttura fantasma ufficializzata con il meet-up e alla fine candiderei qualcuno gestendo direttamente i voti sul portale. È un meccanismo facilissimo da infiltrare e loro lo sanno”. Loro, all’epoca, erano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma la sorpresa di Luigi Di Maio di fronte al caso siciliano lascia intendere che gli strumenti di controllo non ci siano ancora. Intanto l’ormai ex candidato sindaco grillino di Corleone, sfiduciato dal Movimento, ha detto che resterà candidato e che deciderà il “popolo”. Auguri.

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