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martedì 29 settembre 2020

M5s, i think tank sia di centrosinistra che di destra non ce ne perdonano una. Ma questa voglia di annientarci è ingiustificabile

Lo ammetto, sono colpevole. Il M5s è colpevole di essere l’azionista di maggioranza di questo governo che ha affrontato con serietà la più grossa sfida sanitaria ed economica dal dopoguerra ad oggi a causa del Covid. Siamo colpevoli quando riceviamo lodi dall’Oms e da tutta la stampa internazionale per aver ridotto il numero di morti sostenendo l’economia con un bazooka di 100 miliardi di liquidità in un solo anno. E ora siamo colpevoli di rilanciare l’economia con una misura come l’Ecobonus 110% capace di muovere l’intero settore green, tecnologico ed edile del Paese.

Siamo colpevoli dell’opera titanica di digitalizzazione che sta avvenendo tramite la controllata dello stato Pago Pa e a breve carte e scartoffie, bolli e firme verranno sostituiti dall’App Io con pagamenti online, notifiche su smartphone e banche dati integrate. Siamo colpevoli del plauso ottenuto dall’Europa della nostra opera di contrasto alla corruzione con la legge SpazzaCorrotti. Siamo colpevoli di aver voluto una nuova stagione di equità nel paese per i più poveri e per i lavoratori precari con le riforme del Reddito di Cittadinanza e del Decreto Dignità.

Siamo colpevoli della fine della politica dell’austerity e del patto di stabilità, perché in Europa scriveremo nuove regole.

Siamo colpevoli di aver fatto tutto questo solo in 2 anni e mezzo e di aver nel frattempo tagliato 345 parlamentari, cancellato i vitalizi a 1300 ex parlamentari e risparmiato quasi 200 milioni solo alla Camera dei Deputati con l’opera di Roberto Fico.

Sarà per tutto questo che non ce ne perdonano una né i think tank del Pd e del centrosinistra, né i i think tank di destra con il loro blocco di potere dell’informazione, con i loro giornali ed editori, direttori e commentatori televisivi, con il loro blocco di potere di esperti in campo economico, accademico, con il loro blocco di potere di opinionisti e professionisti di vario tipo che non fanno che colpire e indebolire sistematicamente e quotidianamente una forza politica pulita e innovatrice come il M5s.

Allora mi pongo una domanda ingenua. C’è veramente qualcuno che vuole evitare di consegnare il Paese in mano alle destre come dice, le stesse destre di oggi che sono capaci di ripristinare un conservatorismo da Medioevo, che sono capaci di riportare la repressione e la violenza nelle piazze e nelle caserme come accadeva nel 2001 a Genova? C’è qualcuno che vuole che i nostri figli siano liberi, soddisfatti della loro vita, capaci di costruire una società in sintonia con la natura? C’è qualcuno interessato a istituzioni capaci di restare connesse con i cittadini, di curare le ferite delle persone e del territorio con giustizia e trasparenza?

Se ci sono persone di questo calibro è forse arrivato il momento del coraggio e di un impegno partigiano di intellettuali, professionisti, esperti, mondo editoriale e informativo sano per collaborare pubblicamente con una forza politica come il M5s che vuole solo portare l’Italia fuori dal pantano e dall’immobilismo in cui è arenata da più di un decennio.

L’opera titanica di innovazione dello stato, di svecchiamento, di contrasto forte alla corruzione, di costruzione di una vera equità sociale, di un risanamento e protagonismo ambientale non è un’opera che si può sobbarcare solo un nutrito manipolo di parlamentari, da soli contro tutti sotto la potenza di fuoco dei blocchi di potere incancreniti nel nostro Paese e dai vari think tank di destra e di sinistra che difendono i loro privilegi e vogliono tornare alle vecchie posizioni incitando al massacro del M5s, dell’unica forza non allineata e aliena al sistema.

Per l’amor del cielo, qualche errore l’abbiamo pur commesso visto che la perfezione non è di questo mondo, ma non da giustificare questa grande voglia di annientare la più grande esperienza politica di innovazione in Italia degli ultimi 10 anni.

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Parola d’ordine

Parola d’ordine – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano oggi in edicola!

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lunedì 28 settembre 2020

M5s, Crimi dopo la riunione con la squadra di governo: “Fare gli Stati generali in tempi rapidi. È l’indicazione che mi arriva dai ministri”

“L’indicazione che arriva dai ministri 5 Stelle è fare gli stati generali in tempi rapidissimi”. Lo ha detto il capo politico dei 5 Stelle Vito Crimi, in un punto stampa convocato al termine dell’incontro avuto con la squadra di governo M5s per discutere del futuro del Movimento. “Tutti conveniamo sulla necessità di darci una struttura organizzativa definita in tempi rapidi”, ha sottolineato. La riunione si è svolta in un agriturismo alle porte di Roma, dove sono arrivati oltre ai ministri Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Sergio Costa, Federico D’Incà, Vincenzo Spadafora, e Paola Pisano, anche viceministri, sottosegretari e capogruppo dei 5 Stelle

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M5s, Crimi riunisce la squadra di governo in un agriturismo alle porte di Roma: “Un ritorno alla natura e alle origini”

È iniziata nel tardo pomeriggio, in un agriturismo alle porte di Roma, la riunione della squadra di governo del Movimento 5 stelle, convocata dal reggente Vito Crimi per fare il punto sulla riorganizzazione, ma anche sull’azione dell’esecutivo. Sono presenti, tra gli altri, i ministri Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Sergio Costa, Federico D’Incà, Vincenzo Spadafora, e Paola Pisano. “È un ritorno alla natura e alle origine” ha detto arrivando il capo politico Crimi

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domenica 27 settembre 2020

Legge elettorale, Di Maio: “Superare le pluri-candidature e i paracadutati. I cittadini devono poter scegliere i parlamentari”

Una legge elettorale che cominci “a superare le pluricandidature e i paracadutati”, permettendo ai cittadini di “scegliere i propri candidati”. Poi nuovi regolamenti parlamentari che evitino “l’uso distorto del cambio di casacca“. Inizia da qui l’intervista di Luigi Di Maio andata in onda a Che tempo che fa su Rai3. Il ministro degli Esteri traccia i contorni delle riforme istituzionali che la maggioranza ha messo in cantiere dopo la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari. E blinda il governo Conte, respingendo ogni ipotesi di rimpasto: “Mentre i ministri stanno parlando con l’Ue per scrivere i progetti per il Recovery fund, per la terza volta in tre anni cambieremmo gli interlocutori. Credo che questo possa rallentare il processo di ricostruzione del Paese”. Oltre al fatto che, aggiunge Di Maio, mettere ora in discussione l’alleanza con i dem “significherebbe che l’esecutivo cadrebbe. E invece sono d’accordo con Zingaretti: serve un colpo d’ala, può volare”.

Il primo nodo che la maggioranza dovrà affrontare nelle prossime settimane, però, è proprio quello della legge elettorale. “Io penso che tutte le esperienze degli ultimi anni ci hanno spiegato che il modello di riferimento deve essere il proporzionale“, sostiene l’ex capo politico M5s. “Poi ci sono gli sbarramenti che ad esempio servono a favorire la governabilità. Non devono entrare forze dello 0,5% in Parlamento. Oggi c’è una proposta che lo fissa intorno al 3%, poi c’è chi discute di poterla alzare”. In realtà il testo base firmato da Giuseppe Brescia su cui la maggioranza sta lavorando fissa la soglia al 5%. Quella di Di Maio sembra una svista, ma non esclude l’ipotesi che alla fine si arrivi proprio al 3 come chiesto dai partiti più piccoli (Leu in testa). Per quanto riguarda la reintroduzione delle preferenzesu cui il Fatto ha lanciato una petizione online – il ministro ribadisce la necessità di superare i listini bloccati che finora sono sempre stati bocciati dalla Consulta.

Più ampie, invece, le divergenze sulle modifiche ai decreti sicurezza. Su questo Di Maio non si sbilancia, ma si dice certo che si arriverà a un’intesa: “So che c’è una discussione in corso tra le forze politiche su quali punti modificare. Sicuramente bisogna recepire le osservazioni del capo dello Stato Sergio Mattarella”, spiega. “Su tutte le altre sono sicuro che troveremo una soluzione. L’immigrazione è un tema che va affrontato e il governo ci sta lavorando”. A chi gli contesta la situazione nei centri di detenzione in Libia, il ministro chiarisce: “Ho avviato subito il processo di negoziato per superare i centri di detenzione che il Papa definisce lager. Il lavoro della diplomazia andrà avanti e porterà dei risultati, ma ha tempi che non sono né quelli della politica né quelli dei media”. Una situazione non troppo diversa da quella in Egitto, dove “i rapporti non si sono mai normalizzati dalla tragedia di Giulio Regeni“, ma serve tempo per arrivare alla verità. Di Maio però assicura che, per quanto riguarda il ricercatore torturato e ucciso al Cairo è indispensabile la presenza dell’ambasciatore italiano, mentre per la detenzione di Patrick Zaki “è stato attivato il processo Ue di monitoraggio per ottenere giustizia”.

Nel corso dell’intervista c’è spazio anche per affrontare il tema degli Stati generali del Movimento. “Dobbiamo darci un’organizzazione”, insiste Di Maio. “Il mio ruolo è dire muoviamoci, meno opinioni e più idee. Io mi sono dimesso 8 mesi fa da capo politico per dare responsabilità a tutti. Il cambiamento deve mettere insieme tutte queste anime“, ha aggiunto, sottolineando che “bisogna andare oltre qualsiasi tipo di leadership singolare”. L’ultima domanda è sul caso dello stipendio aumentato al presidente dell’Inps Tridico. “Su questo tema dobbiamo fare una considerazione legata al momento che stiamo vivendo”, commenta il ministro. “Tanti italiani sono in cassa integrazione o non riescono a uscire dalla crisi. È chiaro che non sono contenti. Una cosa sarebbe stata discutere dell’aumento dello stipendio di Tridico un anno fa, un’altra è adesso. Faremo gli approfondimenti, ma questa cosa non mi fa perdere la fiducia nel presidente dell’Inps, né nel ministro Gualtieri né nel ministro Catalfo che seguono il dossier”.

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sabato 26 settembre 2020

M5s, così cambieranno le regole del voto su Rousseau per mettere fuori gioco Di Battista

Per capire il senso di una partita è bene conoscere le regole del gioco.

Per esempio nel calcio solo a chi non conosce il fuorigioco appare incomprensibile il movimento dei difensori che – invece di inseguire l’attaccante – scattano in avanti come un sol uomo lasciando solo il goleador rivale davanti al portiere.

Funziona allo stesso modo in politica.

Per capire il gioco difensivo di Grillo, Di Maio e Crimi nella partita contro l’attaccante Di Battista bisogna conoscere le regole del Movimento 5 stelle. Così quelli che a prima vista sembrano gesti impacciati e tardivi della dirigenza M5s diventano invece tanti fili di una rete che sta imbrigliando lentamente Dibba e i suoi.

Per capire i discorsi di Vito Crimi – che venerdì ha proposto un ventaglio di strade con lo scopo di prendere quella più lunga per uscire dalla crisi di leadership a cinque stelle – è molto utile partire dallo Statuto della “Associazione denominata Movimento Cinque stelle”, approvato nel 2017.

L’articolo 4 prescrive: “Competono agli iscritti, mediante lo strumento di democrazia diretta e partecipata costituito dalla consultazione in Rete, le seguenti decisioni fondamentali per l’azione politica del MoVimento 5 Stelle: – elezione del Capo Politico”. Poi c’è l’articolo 7 lett b. Il capo politico “eletto mediante consultazione in Rete secondo le procedure approvate dal Comitato di Garanzia resta in carica per 5 anni”.

La terza regola è la lettera d del medesimo articolo 7: “Qualora la carica di Capo Politico si renda vacante, il membro più anziano del Comitato di Garanzia ne assume temporaneamente le veci. In tale ipotesi, il Comitato di Garanzia ovvero, in difetto, il Collegio dei Probiviri ovvero, in difetto, il Garante indice entro 30 giorni la consultazione in Rete per l’elezione del nuovo Capo Politico”.

Riassumendo: il capo politico del M5s è eletto con il voto online sulla piattaforma Rousseau e resta in carica cinque anni. Quando si dimette, come ha fatto Di Maio a gennaio, entro trenta giorni si dovrebbero indire le nuove consultazioni online.

Queste regole finora non sono state applicate per la successione a Luigi Di Maio. D’accordo con Grillo, il comitato di garanzia, composto da tre membri (Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri) non ha indetto le elezioni per scegliere il successore entro il mese di febbraio 2020.

Quando Di Maio ha presentato le dimissioni, dopo i rovesci elettorali alle amministrative del gennaio 2020, il suo ruolo è stato preso in via temporanea da Vito Crimi, in qualità di membro più anziano dei tre garanti. Poi però le elezioni online per la scelta del nuovo capo sono slittate a dopo i cosiddetti “Stati generali” convocati da Di Maio – prima delle dimissioni – per marzo 2020.

A causa dell’emergenza Covid, esplosa a fine febbraio, gli Stati Generali del M5s sono spariti dai radar e si sono tenuti invece a giugno quelli che hanno celebrato il governo Conte a Villa Pamphilj.

Il Comitato dei garanti e il Garante supremo Beppe Grillo, ad aprile hanno dato legittimità a questa scelta con uno scambio di lettere che ‘interpretava’ lo Statuto adattandolo alla fase dell’emergenza Covid. L’articolo 7 dello Statuto che prevede la convocazione della votazione online entro 30 giorni è stato congelato dal virus. Vito Crimi con lettera ha chiesto a Grillo cosa fare con le elezioni del nuovo capo. E il Garante, forte del suo insindacabile potere di interpretare lo Statuto, ha stabilito che, in caso di emergenza come il Covid, i 30 giorni diventano un termine non perentorio ma ordinatorio. Cioè si può superare tranquillamente senza problemi.

Grillo però chiudeva l’eccezione emergenziale con questa clausola finale: “Reputo che entro la fine del 2020 dovrebbero verificarsi le condizioni perché le elezioni per il nuovo capo politico si svolgano regolarmente e ritengo pertanto che debbano essere indette entro tale data”.

Settembre volge al termine e sembra improbabile che entro l’anno si svolga una votazione sulla Piattaforma Rousseau per l’elezione del nuovo capo politico. Più probabile invece un lungo percorso di consultazione della base per poi ridefinire le regole al fine di favorire la scelta di un nuovo vertice – non individuale ma collegiale – a fine 2020 o addirittura nel 2021.

Perché il Movimento – dopo le ripetute sconfitte elettorali – non ha messo all’ordine del giorno l’elezione del suo nuovo leader, come previsto dallo Statuto varato tre anni fa?

Per rispondere a questa domanda è utile partire da un numero: 169.550. Tanti sono gli iscritti al Movimento che hanno diritto di voto oggi sulla piattaforma Rousseau. Nessuno può prevedere i possibili esiti delle elezioni online di un nuovo capo politico sul modello previsto dallo Statuto.

Prima delle primarie del Pd è possibile fare un sondaggio per pesare i consensi dei candidati. Anche prima del congresso per scegliere il segretario in un partito vecchia maniera non è difficile capire gli equilibri delle correnti e il peso specifico dei candidati.

Nessuno invece, a parte Davide Casaleggio, è in grado di capire chi siano e cosa pensino i quasi 170 mila che potrebbero votare decidendo non solo il capo politico ma anche il destino del M5s e indirettamente forse quello del governo Conte.

I precedenti non aiutano. L’elezione di Di Maio nel 2017 era scontata. I veri candidati rivali possibili (come Roberto Fico) evitarono il confronto e la seconda per preferenze risultò Elena Fattori. Ci furono solo 37mila votanti su 140mila iscritti e ben 30mila e 936 votarono Di Maio contro il misero bottino di 3mila e 596 voti di Elena Fattori.

Oggi l’esito non sarebbe affatto scontato.

Se ci fosse una corsa vera con Luigi Di Maio e altri possibili concorrenti come Paola Taverna, Stefano Buffagni o Dino Giarrusso, nessuno sarebbe sicuro di battere Di Battista.

Per la prima volta il M5s è contendibile e Beppe Grillo potrebbe perdere il controllo della sua creatura. Sempre che lo Statuto attuale fosse rispettato. Sempre che si votasse l’elezione di un solo capo politico mediante la Piattaforma Rousseau come previsto oggi dalle regole vigenti.

In questo quadro si inserisce il dibattito in vista degli Stati generali sulla nuova governance. Il cambiamento dello Statuto è in questo momento più attuale di quello sulle alleanze o sul destino del Recovery Fund.

In questo quadro si spiegano le uscite di Dibba e le bacchettate di Beppe Grillo contro l’ex pupillo a giugno. Quando, in tv a Lucia Annunziata Di Battista disse: “Chiedo il prima possibile un congresso, usiamo anche questa vecchia parola, o un’Assemblea costituente o gli Stati Generali del Movimento 5 Stelle per costruire un’agenda politica e vedremo chi vincerà”. E poi aggiunse: “Conte leader del M5s? Si iscriva al Movimento”, Grillo lo attaccò duramente con ironia beffarda: “Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta”.

Alessandro Di Battista chiedeva – con poco garbo certo – di scegliere il nuovo leader applicando le regole interne vigenti del M5s. Per Grillo dimostrando di essere un eterno immaturo che non ha il senso del tempo come il protagonista del film del 1993 citato dal ‘Garante’.

In questo quadro regolatorio si comprende meglio anche l’ostilità crescente dei parlamentari del M5s verso Davide Casaleggio e la Piattaforma Rousseau. I 300 euro da versare ogni mese non sono l’unico tema della discordia. I parlamentari sono tagliati fuori dal circuito decisionale previsto dallo Statuto e si sentono ingabbiati dal triangolo Capo politico-Garante-Rousseau. Con il Garante Grillo ormai distratto, l’obiettivo comune a diverse anime del M5s in Parlamento è il ridimensionamento della figura del Capo politico e del voto su Rousseau per andare verso una gestione più partecipata e collegiale.

L’obiettivo condiviso da tutti, da Paola Taverna a Roberto Fico, da Luigi Di Maio a Beppe Grillo è quello di evitare di mettere a nudo le diverse anime del M5s in una competizione dagli esiti imprevedibili. Il Movimento non può permettersi una partita ‘Tutti contro Di Battista’. Anche perché non è detto affatto che alla fine della corrida, se l’arena restasse la Piattaforma Rosseau, resterebbe a terra il toro.

Nessuno può prevedere cosa voterebbero i quasi 170mila aventi diritto al voto sulla piattaforma Rosseau. Tutti sanno che Alessandro Di Battista potrebbe candidarsi e molti temono che vinca.

In questo contesto Paola Taverna dichiara: “Mi piace un M5s leaderless. Mi piace una governance pluralista”; Roberto Fico auspica: “un percorso o un’idea nuova di Movimento e una leadership collegiale è senza dubbio buono”. E anche parlamentari eterodossi come Giulia Grillo confermano il desiderio di una guida collegiale, ora come ai tempi del leader unico Di Maio.

La questione della governance è dunque connessa a quella della linea politica.

Alessandro Di Battista ha una linea diversa da quella di Beppe Grillo. Non vuole sentir parlare di alleanze con il Pd e si muove in uno schema tripolare dove il M5s è equidistante da destre e sinistre. L’ex parlamentare dichiara di volere sostenere Giuseppe Conte e il suo governo ma nei fatti lo indebolisce auspicando un distanziamento sociale dal Pd, partito del quale diffida dai tempi in cui combatteva duramente contro Letta, Renzi e Gentiloni all’opposizione in parlamento come Lega e Fratelli d’Italia.

Di Battista inoltre ha una linea lontana da quella del governo Conte anche in politica estera. Il premier ha un ottimo rapporto con gli Stati Uniti nonostante Trump mentre Di Battista vola in Iran e centro-America per raccontare nei suoi documentari i misfatti Usa e contesta la politica imperialista già prima di Trump come farebbe con Biden e – nel suo piccolo – fece già ai tempi di Obama.

Dietro i ritardi nella scelta del nuovo capo politico, dietro l’ansia di collegialità e la voglia di nuova governance ci sono quindi scelte politiche precise: Beppe Grillo e la maggioranza dei parlamentari M5s non vogliono spaccare il partito e mettere a rischio il governo Conte. Per queste regioni legittime non vogliono lasciare a Alessandro Di Battista la possibilità di prendere in mano il Movimento mediante una votazione online su Rousseau dagli esiti imprevedibili.

L’unica soluzione è quindi modificare l’articolo 7 dello Statuto per stabilire che ‘morto un Papa non se ne fa un altro’ bensì si va avanti con un bel collegio di cardinali. Beppe Grillo e la maggioranza dei parlamentari M5s preferiscono un organo collegiale che possa assorbire i ‘dissidenti’ come Di Battista rendendoli innocui. Se Alessandro Di Battista accettasse questa soluzione, entrando nell’organo collegiale, tutti sarebbero felici e contenti. Di Battista però non sembra intenzionato a farlo.

A dire il vero non ha mai dichiarato di volersi candidare come Capo politico del M5s però ha chiesto più volte la convocazione degli Stati Generali per portare il M5s in una posizione terza tra destra e sinistra, pur mantenendo il sostegno al governo Conte sul modello però del governo Conte 1, basato su un contratto M5s-Lega senza nessuna alleanza sul territorio.

Sulla base di questa piattaforma, Di Battista avrebbe sfidato dopo il congresso i candidati più vicini al Pd, candidandosi come Capo politico del M5S.

In questo quadro si inserisce la mossa di Vito Crimi. Il reggente ha proposto ai parlamentari tre ipotesi di uscita dal guado: la prima è il voto immediato per nominare il capo politico alla vecchia maniera sulla piattaforma Rousseau. L’ipotesi non ha nessuna possibilità reale di approvazione ed è stata proposta probabilmente perché è l’unica prevista dallo Statuto.

Le altre due strade lumeggiate da Crimi puntano entrambe alla governance collegiale auspicata da Grillo, Fico, Taverna e compagni. Però le strade alternative non sono previste dallo Statuto. Quindi si torna alla casella di partenza: ci vuole un voto a maggioranza sulla Piattaforma Rousseau e non è una cosa così semplice e scontata.

In prima istanza lo Statuto può essere modificato solo qualora partecipi almeno la maggioranza assoluta degli iscritti, in seconda istanza qualunque sia il numero dei partecipanti.

In prima istanza ci vorrebbero quindi 85mila voti (mai raggiunti finora) per cambiare lo Statuto. In seconda istanza sarebbe sufficiente la maggioranza dei votanti. La modifica dello Statuto per introdurre la governance collegiale è sponsorizzata da Grillo e da gran parte dei parlamentari. Probabilmente passerà in cavalleria. Però le cose potrebbero cambiare se si attivasse su questo anche la fronda interna capeggiata da Di Battista.

Difficile che si arrivi a un duello tra Dibba che difende le vecchie regole e la possibilità di diventare leader e Grillo che auspica unità e collegialità. Ed è comune difficile capire cosa voterebbe la base posta di fronte all’alternativa. Gli iscritti votanti sono in buona parte attivisti M5s della prima ora ma nell’ultimo anno i votanti sono aumentati da 110mila a 170 mila. Tanto che l’europarlamentare Dino Giarrusso, scettico per l’aumento degli iscritti in una stagione di netto calo dei consensi ha chiesto di rendere pubblici i nomi degli iscritti al M5s.

Alla fine il sistema della votazione online sulla piattaforma Rousseau sta mostrando i suoi limiti proprio quando il Movimento si trova a dover fare le scelte più importanti sul suo futuro: dalla governance al leadership. Il momento della verità sarà la votazione sulla modifica degli articoli dello Statuto per passare alla governance collegiale. Vito Crimi dovrà chiedere agli iscritti di eliminare o sospendere le regole interne che prevedono la figura del capo politico e la sua votazione online nei trenta giorni in caso di vacanza.

Quando quelle modifiche dello Statuto saranno messe al voto su Rousseau Alessandro Di Battista sarà posto davanti a un bivio: fare campagna contro una modifica sponsorizzata da Di Maio e Grillo, Fico, Taverna e dalla maggioranza del M5s in Parlamento. Oppure passare ancora una volta la mano. Non è una scelta facile.

La governance collegiale condannerà probabilmente Di Battista a un lungo periodo di irrilevanza politica. Quello che sta passando è l’ultimo treno per lui. La tentazione di saltare su per mettersi alla guida del convoglio c’è ma prevarrà la paura di perdere restando travolti per poi trovare sbarrate le porte dei vagoni in caso di volontà di risalita a un’altra stazione. Di Battista alla fine potrebbe scegliere una terza strada: lasciare andare il treno del M5s guidato da una decina di ex compagni stretti stretti sulla locomotiva per cercare un’altra strada da solo. Magari fuori dalla politica.

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Beppe Grillo e il video con la pietra pomice: “E’ firmata dall’Elevato, smeriglia il cervello della stupidità umana”

Pietra pomice firmata dall’Elevato. Serve a pulire, grattare a smerigliare il cervello della stupidità umana. Pietra pomice firmata dall’Elevato in vendita su Ebay a mille euro al pezzo, di meno non posso fare. Smerigliatevi, pulitevi, grattatevi l’anima con la pietra filosofale, smerigliatrice dell’Elevato”. Lo dice Beppe Grillo in un video postato sui social. “In attesa dei vostri commenti, comincio io: ‘Grattatici il culo’. ‘Pulisciti tu la coscienza’. ‘Quello che hai in mano è il cervello dei tuoi Parlamentari’, aggiunge il fondatore del M5s, che piomba a suo modo nel momento di tensioni del Movimento.

Video Facebook/Beppe Grillo

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Crozza-Di Battista e l’analisi (sconsolata) sul M5s: ‘Abbiamo perso ovunque, pure dove non si votava’

Maurizio Crozza nella nuova puntata di Fratelli di Crozza – in onda il venerdì in prima serata sul Nove e in live streaming su Dplay – veste i panni di uno sconsolato Alessandro Di Battista alle prese con la più grande sconfitta elettorale del Movimento 5 stelle: “Abbiamo perso ovunque: abbiamo perso dove sono andato io e ho parlato, dove non sono andato io e non ho parlato. Abbiamo perso in coalizione, abbiamo perso dove siamo stati moderati, dove siamo stati duri e puri, dove siamo stati ricchi e poveri. Abbiamo perso pure dove non si votava”.

Live streaming, episodi completi e clip extra su Dplay.com (http://it.dplay.com/)

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M5s, il consenso degli elettori si sta squagliando. E temo che le ragioni siano molte

Dopo l’esito assolutamente positivo del referendum sul taglio dei parlamentari proposto dal Movimento 5 Stelle, accettato dalla gran parte degli altri partiti e approvato a valanga dagli elettori, il 5 Stelle dovrebbe avere come unica preoccupazione quella di smaltire in fretta la sbornia del risultato e ripartire in quarta per attuare, insieme agli alleati del Pd, una strategia politica che sia popolare senza essere populista e che consenta di fare un buon lavoro nei circa due anni a disposizione per completare la legislatura.

Invece già dai primi approcci post-voto si intravede solo una precisa volontà: quella di proseguire quella che fin dall’inizio è stata per il Movimento la strategia vincente, ovvero assoluto divieto di derogare dalle regole e dagli ideali che tutti gli iscritti hanno accettato. Regole e ideali che hanno consentito al Movimento in soli 8 anni di diventare partito di maggioranza relativa nel Parlamento italiano. Perché dunque dovrebbe cambiare qualcosa nel Movimento 5 Stelle?

Un perché ci sarebbe ed è che, nonostante l’ottimo lavoro legislativo fatto in questa legislatura dal M5S come partito di maggioranza (prima con la Lega e poi col Pd), il consenso degli elettori verso il Movimento si sta squagliando come neve al sole. Perché?

Non c’è una ragione unica, ce ne sono molte, e su alcune (per esempio sul piano organizzativo) essi sono già da tempo al lavoro, ma sebbene importante non è questo il problema principale. Forse è più importante il piano mediatico. Solo 5 anni fa ai “grillini” venivano persino proibite le apparizioni televisive non autorizzate dal vertice (cioè da Beppe Grillo) e io sono stato tra i primi a dare pubblicamente la sveglia che quella fobia era esagerata e controproducente. Adesso hanno rimediato all’esagerazione, ma non hanno ancora trovato l’equilibrio tra la presenza efficace e l’imitazione degli altri (che per loro è dannosa perché li fa diventare uguali agli altri, mentre loro hanno una mortale necessità di essere diversi).

E poi c’è la solita zavorra esclusivista del M5S che, pur poggiando sul creativismo geniale dei suoi due fondatori, imperniato nel sublime tentativo di avviare in germoglio quella che dovrebbe diventare la pianta della democrazia diretta in Italia, si scontra tuttavia nel quotidiano politichese che favorisce gli altri, specialmente nelle elezioni, quando loro perseguono di regola l’inutile ossessione del “correre da soli”.

Nonostante questa tornata elettorale regionale sia stata per i grillini un disastro, l’alleanza col Pd e il trionfo referendario (politicamente molto più importante) consentirebbero ai “grillini” di ripartire da una posizione politica non negativa. Invece è scoppiato al loro interno un “quarantotto” difficile da capire, perché il meccanismo politico del M5S è un monolite tuttora refrattario al dialogo con chiunque, persino al suo interno.

Circola così un grande nervosismo, specialmente tra quelli che temono non rientreranno tra due anni nel Parlamento per divieto esclusivo M5S o perché non troveranno posto, tanto che, proprio in questi giorni, è stato lo stesso Grillo a “sbottare” pubblicamente contro i suoi fedelissimi fino al punto di affermare che “non crede più nella democrazia rappresentativa”.

Caro Grillo, tu secondo me sei un grande intellettuale, e hai avuto lampi di genialità nell’intuire che unendo la tua superiorità culturale a quella informatica di Gianroberto Casaleggio potevate avviare insieme una “democrazia diretta”. La tua brillantezza comico/satirica e i tuoi successi di piazza, magicamente conclusi nel fatidico “Vaffa” di ogni raduno, ti hanno consentito di aprire davvero il Parlamento “come una scatoletta di tonno” per farci entrare (ovviamente eletti dal popolo) centinaia di tuoi osannanti alfieri.

Un vero capolavoro politico, ma da lì in poi hai commesso troppi errori. Dopo la strabiliante vittoria del 2018 hai concesso a Luigi Di Maio di prendere troppo potere dopo che era già capo politico. Ma appena un anno dopo, causa il ravvicinato sgambetto dei due Matteo, senza spiegare nulla (comprensibile al popolo) lo hai “decapitato” in occasione della nuova alleanza col Pd umiliandolo in modo assurdo. Lui ha retto abbastanza bene il colpo, ma la massa popolare che non segue quotidianamente la politica ha captato quell’intervento come una “degradazione”, che si associava fatalmente alla montagna di critiche sui 5 Stelle che circola liberamente nei media, pilotata dalle opposizioni. Tentando di aiutare in modo scoordinato Vito Crimi, gli altri leader del Movimento riuscivano solo a rendere più evidente la mancanza di coordinamento politico.

Nessuno si è accorto, nel Movimento, che la nuova organizzazione interna (che comprende anche quella esterna tramite Rousseau), sia pure con ampie diramazioni territoriali più o meno attive, costituisce di fatto una organizzazione chiusa in un cerchio riservato agli addetti? Tra i quali centinaia di parlamentari e amministratori locali. Di fatto una “casta” che si è resa inaccessibile non solo ai non iscritti, ma in gran parte anche agli iscritti non “titolati”.

Caro Grillo, ti sorprende che i semplici elettori scappino? E questa vorresti davvero chiamarla democrazia diretta?

Ho tentato in molti modi di contattare direttamente qualcuno via mail. Risponde Rousseau, cioè il computer, e spesso risponde male. Ho tentato un paio di volte persino con il normale servizio postale. Nessuna risposta (quando scrivo ai miei due senatori del Texas, mi rispondono sempre!). Sai cosa ti dico? La democrazia diretta non può essere attuabile oggi, e forse non lo sarà mai, a meno che… ma questo non te lo dico qui. Se vuoi saperlo devi farmi invitare a parlare agli Stati Generali del tuo Movimento.

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venerdì 25 settembre 2020

Referendum e regionali: tra predizioni e conferme c’è soprattutto un vincitore

di Antonio Marino

Le consultazioni che non ti aspetti. I giornaloni del No che paventavano rischi (inesistenti) per la democrazia rappresentativa e derive autoritarie in conseguenza della riduzione del numero dei parlamentari escono sconfitti. La quasi totalità della stampa e dell’informazione italiana, dunque, rappresenta una minoranza del Paese, esattamente come la stampa di regime, che nel 2016 ci aveva spacciato la riforma Renzi-Boschi come la panacea di tutti i mali (e invece ne creava) fu smentita ancora una volta dalla larga maggioranza del popolo italiano. Casualità? A voi la riflessione.

Non meno profetica è stata rispetto ai risultati delle regionali. Prospettava gli scenari più vari: scioglimento delle camere, elezioni anticipate, Matteo Salvini vittorioso e al Governo, l’apocalisse. Scenari, anche questi, prontamente smentiti dagli elettori. Ha perso Salvini che, pur avendo dichiarato il suo Sì al taglio, ha fatto fare la campagna per il No ai big del suo partito, sperando intimamente che questo vincesse per poter rovesciare il governo (dimenticando che anche il suo partito aveva sostenuto il Sì alla riforma in Parlamento). Se non ha vinto la partita del referendum, certamente ha perso quella delle regionali. Trionfante, qualche settimana fa annunciava: “Vinceremo 7 a 0”.

Invece del cappotto, ha portato a casa un pareggio deludente (è da vedere ancora la Valle d’Aosta) che sa di sconfitta. Sì, perché anche dove ha vinto Salvini è riuscito a perdere: in Veneto dove la lista personale di Luca Zaia, cioè il meno leghista della Lega, ha preso più del 40%, nelle Marche dove ha trionfato il candidato di Fdi e nella Liguria del forzista Giovanni Toti. Ma soprattutto ha perso (e anche male) la partita sulla quale più aveva puntato: strappare la Toscana al centrosinistra (esattamente come qualche mese fa in Emilia Romagna). Entrato papa alla vigilia, ne è uscito cardinale.

Ha perso Renzi che è stato irrilevante per l’elezione di Eugenio Giani in Toscana (aveva mal calcolato evidentemente la paura per l’elezione della Ceccardi), fallendo anche in Puglia nel tentativo di far perdere Michele Emiliano, candidando l’inconsistente Scalfarotto (e andando, per l’occasione, insieme all’altrettanto irrilevante Calenda), destinato a prendere meno del 2%.

Ha perso la parte barricadera del M5s (Alessandro Di Battista su tutti), troppo impegnata a picconare per principio l’alleanza 5stelle-Pd per accorgersi che, restando sulla linea oltranzista, il M5S è destinato all’irrilevanza territoriale (il che non è una novità) e troppo impegnata a rivendicare la purezza del movimento per rendersi conto che una delle riforme simbolo era passata proprio grazie a quell’alleanza.

Ha vinto Giuseppe Conte (e il suo governo) che aveva spalleggiato una convergenza tra le forze di maggioranza anche sui territori, indicazione che tra l’altro era giunta anche dalla base Cinque Stelle che si era espressa in questo senso sulla piattaforma Rousseau e che, evidentemente, si è mostrata più matura e lungimirante dei vertici, premiando nelle regioni dove si giocava la partita più delicata per l’esecutivo il candidato del centrosinistra, sfruttando il voto disgiunto (ascoltando l’intelligente appello di Marco Travaglio).

Hanno vinto Nicola Zingaretti e il Pd (e questa certamente è una novità), che sta faticosamente cercando di uscire dal tunnel del renzismo, ma il percorso è ancora lungo e irto di ostacoli interni (ricordiamoci che buona parte dei gruppi parlamentari usciti dalle politiche del 2018 sono espressione di quella scellerata parentesi).

Ha vinto anche Luigi Di Maio, che lasciato solo a fare la campagna per il Sì dal resto del Movimento, ci ha messo la faccia tra Sì tiepidi e poco convinti (soprattutto da sinistra) e No spinti da una stampa mossa per lo più da interessi particolaristici (altro che difesa della Costituzione) e dal centrodestra, bramoso di rovesciare Conte. E, diciamolo, ha vinto anche il popolo italiano che, nonostante la pandemia, ha dimostrato di non mancare all’appello, nonostante qualcuno, in fondo, ci sperasse.

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M5s, gli Stati Generali devono marcare un netto cambio di passo: occorre coraggio

Chi come me frequentava già prima di quel 4 ottobre 2009 i meet up locali sa che abbiamo costruito tutti insieme una scialuppa di salvataggio per questo Paese. Un Paese governato da lestofanti che l’hanno spolpato economicamente e culturalmente. È evidente che dopo più di dieci anni da quando è cominciato il nostro percorso sia indispensabile un pit stop. Siamo giunti a un bivio. Io credo sia un’ottima occasione per imboccare la strada giusta ed evolverci, crescere, essere davvero in movimento.

Abbiamo un inestimabile patrimonio da difendere: il grande lavoro svolto. In meno di 2 anni il M5s al governo ha realizzato più di 40 leggi che stanno cambiando il Paese. Il reddito di cittadinanza per 3 milioni di persone, la più severa legge anticorruzione d’Europa, l’abolizione della prescrizione, il taglio delle pensioni d’oro, 1 miliardo e mezzo di euro per i truffati delle banche. Il Decreto dignità per i contratti a tempo indeterminato e il codice rosso per proteggere donne e bambini. Stop a nuovi inceneritori e nuove trivellazioni nei nostri mari. Abbiamo estromesso i Benetton da autostrade italiane, varato l’eco e sisma bonus, contribuito a ricevere dall’Europa la somma record di 209 miliardi e, dopo 40 anni che se ne discuteva, il taglio di 345 parlamentari.

Tutti fatti che senza il M5s non si sarebbero mai avuti. E di questo dobbiamo essere fieri e il primo fondamentale cambiamento che deve essere realizzato è un netto aumento della nostra autostima, del nostro orgoglio per il lavoro svolto.

Sembra, invece, che anche al nostro interno si sia imparato a fischiettare quel malsano e falso ritornello mediatico che ripete da anni sempre ciò che non va del M5s. E’ tempo di liberarci di questo mantra che ha ipnotizzato troppi di noi.

A causa di una legge elettorale appositamente scritta per non farci governare da soli, siamo stati costretti a trovare delle convergenze con altre forze politiche. Questo inevitabilmente ha macchiato la nostra immagine, l’essere percepiti come diversi. In questi due anni stiamo ricostruendo un Paese che abbiamo ereditato in macerie, abbiamo espresso il presidente del Consiglio più amato e capace degli ultimi decenni, stiamo traghettato egregiamente il Paese nel momento più difficile dal dopoguerra ad oggi. Però abbiamo commesso un errore: ci siamo dimenticati di noi, della nostra forza politica, dei nostri territori.

Io credo che senza il M5s, con il ritorno di personaggi anacronistici e prezzolati come Salvini, Berlusconi e Meloni, questo Paese sprofondi nell’oblio ed è quindi indispensabile ora focalizzare l’attenzione sulla nostra evoluzione. Un’evoluzione che si può avere solo con degli “Stati Generali” non virtuali, dove ci possa essere un reale confronto e non una votazione su una piattaforma.

Io credo che serva un netto cambio di passo, una ristrutturazione seria e non un cambiamento cosmetico: occorre coraggio. Ma anche una nuova visione: temo siamo rimasti prigionieri di alcune logiche logore. Il M5s, grazie alla lungimiranza dei suoi fondatori, è nato per essere avanguardia culturale.

Gli Stati Generali devono essere l’opportunità per ripartire tutti insieme, raccogliendo le istanze che ci giungono dal basso. In questi giorni ho girato tanto per la Toscana spiegando la riforma costituzionale ma soprattutto ho raccolto le voci, le preoccupazioni e la rabbia di chi presidia i territori. Se non decliniamo pragmaticamente in azione politica queste richieste siamo destinati all’oblio.

Per fare ciò serve essere strutturati. Occorre realizzare una catena di collegamento tra attivisti, consiglieri comunali, regionali, parlamentari e governo. Serve costituire una colonna vertebrale che possa tenere in piedi il nostro progetto. Molti facilitatori stanno facendo un ottimo lavoro, ma il loro ruolo e ambito operativo non sempre è chiaro e pensare di relegare il tutto all’ambito del volontariato, senza nemmeno un rimborso spese è utopico.

Tagliandoci gli stipendi abbiamo creato un fondo di oltre 114 milioni di euro, una cifra enorme. Se anche solo una piccola percentuale di questa somma fosse stata adoperata per radicarci, costruire una struttura flessibile ma presente, oggi non saremmo dei fantasmi sui territori. Io reputo che parte di questo budget sia da usare per rafforzarci localmente, altrimenti le regionali e comunali saranno sempre una debacle.

1) Servono luoghi di incontri, delle “Agorà a 5 stelle” (almeno in ogni provincia) dove potersi incontrare, aprirsi ed essere visibili, è importante guardarsi negli occhi e fare comunità. Rinchiudere gli attivisti solo in delle chat whatsapp è deleterio, inoltre è accaduto che si siano infiltrati finti sostenitori che seminano zizzania e divisione, in alcuni casi anche per biechi interessi personali.

Servono delle Agorà dove i portavoce possono spiegare il lavoro che si sta realizzando in parlamento, dove si invitano esperti ambientali, di politica estera, di diritto costituzionale, di economia. Luoghi che devono diventare presidi culturali dove si possono formare i futuri candidati anche dal punto di vista della comunicazione.

2) È indispensabile uno scudo legale per i consiglieri comunali sovente sotto attacco.

3) Un’idea da vagliare è una Tv a 5 stelle, un canale satellitare dove possa emergere un’informazione credibile dato che la Rai continua ad essere lottizzata e non attendibile come non lo sono le Tv private.

4) Gli iscritti hanno scelto che il M5s si può alleare, ma le possibili convergenze vanno analizzate e condivise a livello locale.

Ma qualsiasi cambiamento deve passare attraverso un’unione tra le varie anime, le varie sensibilità che oggi albergano soprattutto nei gruppi parlamentari. La stagione di chi colpisce con maggiore precisione il “capo politico” ha solo ferito il sentimento di unità e non trovo alternative a un organo collegiale dove ogni istanza possa avere rappresentanza e consapevolezza che serve remare tutti insieme nel modo più coordinato possibile. Se vogliamo continuare a cambiare il Paese, è giunto il tempo di occuparci del M5s.

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M5s, Fico: “Serve percorso verso idea nuova di Movimento. Leadership collegiale? Buona idea”

“Io dico che ci vuole un percorso verso un’idea nuova di movimento e una leadership collegiale mi sembra una buona idea. Ci vuole un luogo di discussione in cui trovare soluzioni. Ci vuole sia un luogo di discussione dal vivo che la partecipazione in rete”. Lo ha detto il presidente della Camera ed esponente del Movimento 5 stelle, Roberto Fico, a margine del convegno “Verso la conferenza nazionale per la salute mentale” che si è tenuta a Napoli a Palazzo Serra di Cassano

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M5s, Bonafede: “Regionali? Risultato negativo, ora si riparte dai cittadini”. E sulle alleanze: “Il paese ha bisogno di compattezza”

“Basta divisioni, basta polemiche. Noi siamo il Movimento 5 Stelle, la forza politica che nonostante diverse sensibilità è sempre stata compatta per i cittadini. Dobbiamo lavorare per i cittadini”, così Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, uscendo dal Senato e riferendosi ai risultati dell’Assemblea dei gruppi congiunti di Camera e Senato del Movimento 5 Stelle svoltasi ieri sera. “Le regionali non sono andate come volevamo. Succede. Adesso si tratta di prenderne atto e di ritornare a lavorare come prima e più di prima per una proposta ai cittadini. Il consenso poi ne è una conseguenza”.

Poi svicola il tema della leadership del M5S: “Leadership? Ci metteremo intorno a un tavolo. Agli Stati Generali si capirà l’organizzazione per il Movimento 5 Stelle, che servirà per dare le migliori soluzioni agli italiani”. Sulle alleanze invece è chiaro: “Stiamo lavorando bene a livello nazionale. Continuiamo su questa strada e verifichiamo nei territori col dialogo se ci sono le condizioni. Il Paese ha bisogno di compattezza a tutti i livlli. Nei territori valuteremo se ci sono le condizioni per allearsi. Il tentativo di avviare un confronto deve esserci”, ha concluso.

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Governo, Bersani a De Benedetti su La7: “Mi turba suo atteggiamento da dita negli occhi contro M5s. Sue critiche ingenerose e poco utili”

“Mi turba un po’ questo suo atteggiamento da dita negli occhi contro i grillini. Dire che questo governo ha fatto delle cose nonostante i 5 Stelle è un po’ ingeneroso e poco utile“. Così, a “Piazzapulita”, su La7, il deputato di LeU, Pier Luigi Bersani, risponde all’editore Carlo De Benedetti, che ha esposto giudizi poco generosi sul governo Conte Due e in particolare sui 5 Stelle.

Bersani aggiunge: “Da quando c’è stata l’alleanza e l’atteggiamento non è da dita negli occhi, anche il Pd e la sinistra si sono un po’ rimpannucciati. In Puglia e in Toscana hanno preso ampiamente dei voti dai grillini. Ricordo che giornali internazionali, come il Financial Times, hanno scritto che siamo stati i migliori nell’affrontare la pandemia da covid. Erano tutti stupidi? Bisogna anche avere la misura. Io penso che nel governo ci siano non solo delle competenze, ma anche gente seria. Adesso non giuro su tutti, ma, insomma, siamo in mano a persone come Gualtieri, Speranza, Provenzano, Patuanelli“.

L’ex segretario dem ricorda: “Lei sa che nel 2013 ho mostrato simpatia per i 5 Stelle e ho lasciato il punto. Nel 2014 è arrivato Renzi nel Pd: per 3 anni ha fatto dei 5 Stelle il nemico principale con argomenti pesanti e con un coro di approvazione. L’esito nel 2018 è stato che il Pd, che con me aveva preso il 25% dei voti, è arrivato al 18% e che i 5 Stelle dal 25% sono andati al 34%. E oggi godono di 330 parlamentari, che sono il doppio di quelli del Pd”.

E chiosa: “Grillo? Lasciamogli l’utopia, lui pensa che con le tecnologie possiamo tornare all’agorà dell’antica Atene. E va bene. Però le assicuro che, a parte il presidente Fico che si sta occupando dei regolamenti parlamentari, pur nell’inesperienza di tanti, questi giovani dei 5 Stelle sono impegnatissimi nel Parlamento“.

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La disfida di Barzelletta

Deus vult lo partito della rete! – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano oggi in edicola!

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giovedì 24 settembre 2020

M5s, Crimi: “Avviato percorso per nuova governance, non si prescinde dagli iscritti. Voto su Rousseau? Non vedo altri strumenti”

“Dovevamo avviare il percorso verso gli Stati generali. Invece che decidere da solo il metodo, come prevederebbe lo Statuto, ho avviato un percorso di confronto con tutte le realtà del M5s: sarà condiviso, dal coinvolgimento della nostra assemblea degli iscritti non si può prescindere”. A rivendicarlo, il capo politico reggente M5S Vito Crimi al termine dell’assemblea congiunta M5S, convocata tra le polemiche dopo il risultato negativo delle ultime elezioni Regionali, e durata circa quattro ore.
Crimi ha ripercorso, di fronte ai cronisti, i tre scenari presentati ai parlamentari durante l’assemblea: votare subito un capo politico unico, votare subito un organo direttivo collegiale o avviare un percorso per gli Stati Generali. Quest’ultima strada, come è stato sottolineato da diversi parlamentari al termine dell’assemblea, sembra essere quella preferita dai parlamentari: “Il voto online del capo politico? Non è l’ipotesi più accreditata”, ha confermato il deputato Francesco Silvestri.
In merito all’ipotesi del percorso per gli Stati Generali, Crimi ha poi aggiunto: “Ho proposto un comitato di dieci persone per esaminare i contributi che arrivano dalle assemblee territoriali, su cui poi votare”. Un voto che, nonostante le tensioni delle ultime settimane e gli attriti con Davide Casaleggio sulla gestione della piattaforma, sarà organizzato comunque su Rousseau: “È il nostro strumento, non ne vedo altri”, ha tagliato corto il reggente M5s.

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M5s, parlamentari si riuniscono: sotto accusa Rousseau e gli Stati generali. Buffagni: “Toni e persone inadeguate, basta fare gli struzzi”

Non sarà una vera e propria resa dei conti (molti dei leader in causa saranno assenti), ma una prima assemblea per affrontare finalmente i malumori che da settimane agitano il Movimento 5 stelle. Alle 18 deputati e senatori si riuniscono infatti per una riunione congiunta, in un clima che si annuncia già molto teso. All’ordine del giorno ci sarà sicuramente l’organizzazione degli Stati generali (per il rinnovo del capo politico e non solo), ma anche alcuni dei temi che stanno spaccando i 5 stelle. Innanzitutto la gestione della piattaforma Rousseau e il ruolo di Davide Casaleggio. Saranno i capigruppo Davide Crippa e Gianluca Perilli a condurre l’assemblea. Non è ancora stato chiarito se il capo politico Vito Crimi sarà presente.

Il rischio è che le dinamiche interne si riducano, come già evidenziato da molti big, a una vera e propria guerra tra bande. Oggi lo ha ribadito Roberto Fico: “Basta con le battaglie intestine, dobbiamo avere una collegialità maggiore, perché alcuni problemi ancora vivi nel M5S derivano da verticismo troppo spinto che c’è stato”. E quelle parole, in molti, le hanno lette come un attacco all’ex capo politico (ancora molto presente) Luigi Di Maio. Un’altra riflessione che oggi ha fatto molto discutere è quella di Stefano Buffagni, viceministro M5s: “Io continuo la mia lotta”, ha scritto su Facebook, “anche se spesso è sfiancante e demotivante: l’inadeguatezza di certe scelte, di talune persone, e dei toni nel Movimento 5 Stelle è alla base della situazione che stiamo affrontando. Spero finiremo di fare gli struzzi, capendo nei modi e nelle sedi giuste come cambiare, cacciando anche ‘i mercanti dal tempio'”.

Secondo i parlamentari sarà appunto la piattaforma Rousseau il “primo” bersaglio dei deputati e senatori. Come se non bastassero le difficoltà organizzative, un’altra delle guerre sotterranee in corso è proprio quella contro Davide Casaleggio. E non è un caso che i probiviri del Movimento, in questi giorni, hanno aperto il procedimento disciplinare nei confronti di chi ha fatto campagna per il No al referendum, procedimento che si aggiunge a quello, annunciato dallo stesso Casaleggio, per i “morosi” sulle rendicontazioni. E da una parte dei gruppi l’accusa al numero uno di Rousseau non è marginale: aver cambiato, sul sito tirendiconto.it, il termine entro cui essere in regola con le restituzioni (non più entro aprile ma entro i due mesi precedenti) prima di inviare la mail d’avvertimento agli eletti. Termini che, pochi giorni dopo, è stato poi ricambiato tornando all’iniziale deadline di aprile.

In questi delicati equilibri interni, si inserisce la figura di Giuseppe Conte. Che oggi, intervistato da la Stampa, ha risposto a una domanda sulla possibilità che sia lui a guidare il Movimento. “Parliamo di una straordinaria esperienza che ha profondamente innovato la politica italiana e che ora è chiamata a compiere un salto che auspico avvenga all’esito di un confronto franco e sereno fra le varie anime. Per quanto mi riguarda, l’impegno di governo è assorbente e richiede la mia massima concentrazione”. Insomma, diventare guida del Movimento non è nei suoi piani imminenti, ma non esclude categoricamente di poter avere un ruolo (anche in vista della prossima legislatura).

In merito alle dinamiche interne al Movimento, si è espresso anche il segretario Pd Nicola Zingaretti: “Non voglio fuggire alle domande”, ha detto, “ma non è corretto che sia io a mettere bocca, nel Movimento c’è dibattito ed è confermato che M5s è composito, non è un monolite da regalare alla destra di Salvini. Mi auguro che l’esito del confronto interno porti a capire che ora abbiamo una missione comune, abbiamo salvato l’Italia, ora abbiamo la missione di rilanciare l’economia, rimettere in campo un progetto, creare lavoro e combattere disuguaglianze”.

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M5s, Fico: “Basta con guerre intestine. Serve collegialità, alcuni problemi derivano da verticismo troppo spinto che c’è stato”

Basta con le battaglie intestine. Dobbiamo riuscire ad avere una collegialità maggiore, perché alcuni problemi ancora vivi ancora oggi nel M5S derivano, secondo me, anche da un verticismo troppo spinto che c’è stato in un periodo”. Sono le parole pronunciate ai microfoni di “24 Mattino”, su Radio24, dal presidente della Camera Roberto Fico circa la crisi all’interno del M5s. E aggiunge: “Serve una maggiore collegialità con la quale ognuno può dire la sua e si può trovare una sintesi. Questo non è soltanto il sale della democrazia, ma anche una soluzione utile a tutti e migliore nei contenuti per una maggiore maturità”.

Fico analizza la situazione attuale del M5s: “Ognuno può avere una posizione ed è giusto che ci sia un forte dibattito interno chiaro e trasparente, ma come Movimento dobbiamo trovare una collocazione identitaria. Siamo nati come forza politica anti-establishment che, a un certo punto, è diventata di governo e quindi può avere automaticamente delle contraddizioni interne, che possono essere positive e negative. Ma si tratta di contraddizioni che vanno elaborate per trovare un percorso nuovo – continua – Non c’è dubbio che il Movimento debba spingere al massimo sull’acceleratore in merito ad alcuni temi, come la legge sull’acqua pubblica. Su queste tematiche possiamo fare molto bene, ovvero tornare su quei principi di base sui quali lavoravamo. Nello stesso tempo, però, dobbiamo pensare al Paese per esempio con l’opportunità del Recovery Fund”.

Circa i malumori interni al Movimento, come quello palesato da Alessandro Di Battista, Fico assicura: “Penso che la spaccatura all’interno del M5s non ci sarà. Ogni volte che il Movimento ha avuto dei periodi difficili, alla fine ci si è messi tutti intorno a un tavolo, che in questo caso possono essere gli Stati Generali, per lavorate tutti insieme e arrivare a una sintesi. Non devono prevalere gli interessi personali ma il bene del movimento, che significa anche fare il bene del Paese. Di Battista parla troppo? – prosegue – Ognuno può dire e fare ciò che vuole. L’importante è essere chiari e trasparenti sulle cose che si fanno. Conta la coerenza dei comportamenti, perché sono convinto che tutti insieme possiamo arrivare a un buon risultato per tutto il movimento, rilanciandolo in senso positivo. Non con un rilancio alla maniera dei vecchi partiti ma cercando di affrontare le sfide importantissime del futuro e quindi proporre idee nuove”.

Commento finale sulle discusse dichiarazioni di Beppe Grillo (“Credo nella democrazia diretta, non nella rappresentanza parlamentare”): “C’è un principio di vasi comunicanti tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. E tutto questo si realizza con una grande partecipazione del popolo alle attività politiche. Io sono convinto che debbano lavorare insieme, perché quando aumentiamo la capacità di scelta dei cittadini aumentiamo contemporaneamente la qualità della politica. Le due cose possono andare insieme”.

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M5s, a rischio gli 8 parlamentari che hanno votato No al referendum. E i probiviri avviano procedimenti anche sui 30 “morosi”

I probiviri M5s hanno aperto 8 procedimenti per i parlamentari che hanno votato No al taglio di deputati e senatori e una trentina di fascicoli per i cosiddetti “morosi” delle restituzioni. La notizia è stata anticipata dall’agenzia Adnkoronos earriva in un momento di grande tensione per il Movimento 5 stelle, a pochi giorni dalla débacle elettorale alle Regionali. Proprio oggi alle 18, i gruppi parlamentari si riuniranno per affrontare la questione degli Stati generali e della riorganizzazione. Il rinnovo della figura del capo politico, rinviato da sette mesi, è uno dei nodi che sta creando più malumori all’interno del M5s.

Una delle prime operazioni fatta partire dai vertici è la resa dei conti sui parlamentari che non rispettano o non hanno rispettato le regole del Movimento. Innanzitutto coloro che hanno deciso di votare No al referendum per il taglio dei parlamentari: tra loro ci sono Andrea Colletti, Marinella Pacifico, Elisa Siragusa, Mara Lapia, Matteo Mantero. Questi sono accusati di aver violato il codice etico ignorando quanto scritto nel programma M5s. Ancora più sentito, è il problema di chi si rifiuta di restituire metà dello stipendio come previsto dalle regole interne.

I probiviri, chiamati dallo statuto a decidere eventuali sanzioni, hanno formalmente aperto le procedure, una quarantina in tutto, dando, come da regola, 10 giorni a chi è finito nel mirino per inviare le cosiddette controdeduzioni. Solo una volta analizzate le difese, i probiviri decideranno sul da farsi.

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Referendum, il dibattito di questi mesi è giurassico: nessuno pensa al futuro

Due spunti di riflessione dopo la débâcle del “No” (premettendo che, per quel che mi riguarda, tagliare era questione sacrosanta, per tutte le ragioni note a chiunque abbia voluto informarsi senza pregiudizi ideologici, senza dar adito a baggianate sul fascismo incombente, sul vulnus democratico, eccetera eccetera).

1. Il primo: l’unico giornale a fare campagna per il “Sì” è stato il Fatto Quotidiano, che però è solo uno dei tredici maggiori quotidiani italiani (esclusi quelli sportivi), e rappresenta (dati del 2017) circa il 4% dei lettori (senza tener conto degli utenti online). Ora, visto che la famosa “libera informazione pluralista” dovrebbe appunto tener conto dei vari orientamenti e, in qualche modo, rispecchiare grossomodo le inclinazioni del Paese reale, qualcuno dovrebbe chiedersi: quali giornali hanno rappresentato il rimanente 66% che, in proporzione, ha votato “Sì”? Risposta: nessuno.

E pressoché lo stesso potrebbe dirsi degli altri mezzi di comunicazione, in stragrande maggioranza schierati contro il taglio, col risultato che circa il 94% di chi ha votato “Sì” non è stato rappresentato da nessun organo di informazione (per limitarsi soltanto al cartaceo). Il che, oltre a essere indecente, dà la misura di una situazione che si ripete, coi relativi aggiustamenti, in tutto l’Occidente: la classe soi-disant dirigente e intellettuale che monopolizza il discorso pubblico crede che alla foga, impacciata e in assoluta malafede, con cui presidia la stampa, corrisponda un effettivo potere d’influenza, mentre è innegabile che nella costruzione dell’opinione pubblica contemporanea giornali e televisioni contano sempre meno.

I Puri e Folli, i Giannini bifronte, i direttorissimi pompieri Mauro Damilano Molinari, eppoi mielisti vari… incluso il capostipite, sempre pronti a fustigare la barbarie, a esercitare il loro disappunto da sentenziosi Catoni corrucciati, apostoli indefessi del Sommo Bene pubblico, del galateo morale, delle autentiche virtù democratiche, sono vacui ectoplasmi catodici, presenzialisti inconsistenti, a mio parere di una mediocrità culturale che consentirebbe loro a fatica di sostenere un esame di cultura generale.

Eppure pontificano indignati, senz’accorgersi che il Novecento è finito da un po’ e delle loro omelie in minore non frega più niente a (quasi) nessuno. Soprattutto perché, per quanto disprezzano chi è estraneo ai loro salotti, se arringano in difesa della democrazia sono credibili come un pokerista quando bluffa.

2. Poi: i parlamenti delle democrazie occidentali decidono poco o nulla almeno dalla svolta neoliberista del triennio 1978-‘80 (impeccabili, a questo riguardo, le note analisi di David Harvey, corroborabili a piacere con Boltanski-Chiapello o Piketty). Il loro ruolo è inscenare burocraticamente il “gioco dei partiti” intanto che, sotto lo scudo retorico del mantra per cui “non ci sono alternative”, vengono invariabilmente ratificate decisioni prese altrove, dove consorterie e camarille controllate da nessuno muovono le leve del potere economico in modo programmaticamente ostile agli interessi dei più. Da questo punto di vista, discutendo del numero dei seggi ci si sta accapigliando intorno a qualcosa che, di fatto, non dovrebbe nemmeno essere oggetto di disputa politica perché, semplicemente, non ha più alcun impatto sul modo in cui il “reale” si produce.

I beoti del parlamentarismo di matrice liberale come unica forma politica possibile dovrebbero poi far due conticini colla storia. Il sistema parlamentare moderno, antecedente diretto di quello attuale, nasce in Inghilterra nel XVII secolo e s’afferma nel continente alla fine del secolo successivo. È dunque un’istituzione abbastanza recente. Non necessaria e eterna, ma relativa a un certo contesto. Oltretutto, il meccanismo della rappresentanza è essenzialmente una tecnica. Perché il “popolo” esercitasse il potere legislativo, essendo materialmente impossibile consultare tutti i cittadini qualificati ogniqualvolta si trattasse di prendere una decisione, s’è proceduto per delega: l’elezione del rappresentante in parlamento.

Tutto questo, prima dell’avvento e della diffusione di Internet, era una necessità procedurale inevitabile. Ora, qualcuno, nell’epoca attuale, può davvero pensare che in un mondo dove solo il 4% degli utenti passa meno di un’ora al giorno (il 50% dalle 3 alle 7 ore) allo smartphone, e dove ogni anche minima attività – così come gli accessi al mercato e ai servizi – viene gestita per via telematica – dalle interazioni sociali all’acquisto del biglietto del tram; qualcuno può davvero pensare che la tecnica della rappresentanza parlamentare non sia già divenuta de facto obsoleta?

È evidentemente solo questione di tempo, ma il parlamento verrà giocoforza sostituito dal “popolo” degli utenti digitalmente interconnessi che, di volta in volta, potranno esprimersi in modo diretto su questa o quest’altra proposta di legge. La cosiddetta “democrazia diretta” non è un’invenzione dei 5 Stelle ma una necessità storica determinata dalla tecnologia oggi vigente. Alla luce di queste considerazioni è facile intuire che la discussione di questi mesi sul taglio è un dibattito giurassico, perché anziché pensare una nuova forma politica futura, cioè tentare di intersecare e governare i processi che determineranno il mondo di domani, si ostina a dibattere intorno a un simulacro del passato, fingendo di non sapere che la vera posta in gioco è altrove.

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mercoledì 23 settembre 2020

Comunali, il caso di Manduria: Pd e M5s uno contro l’altro al ballottaggio nella città sciolta per mafia nel 2018

Movimento 5stelle e Partito democratico uno contro l’altro al ballottaggio. Succede a Manduria, comune della provincia di Taranto e punto di incontro delle tre province che formano il Salento. Una terra difficile, spinosa in cui si scontreranno il prossimo 4 ottobre il candidato dem Domenico Sammarco e Gregorio Pecoraro sostenuto dai pentastellati. Negli ultimi due anni il Comune è stato commissariato dopo lo scioglimento del consiglio per infiltrazione mafiose. Quel territorio che unisce le province di Taranto, Brindisi e Lecce è ancora un baluardo della Sacra Corona Unita: per anni è stata la roccaforte di Vincenzo Stranieri, detto “Stellina”, il boss che ininterrottamente dal 1992 è detenuto ancora oggi al 41 bis. Ma per molti quella storia lontana è stata dimenticata.

Oggi, a Manduria, i circa 30mila abitanti vivono di terra e acciaio: qui alla fine degli anni ’60 nacque la figura del “metalmezzadro” raccontata da Walter Tobagi, contadini che con l’arrivo dell’Italsider a Taranto dividevano la loro giornata tra il lavoro nei campi e quello in fabbrica. Di Manduria è Luigi Capogrosso, storico direttore dell’Ilva gestita dai Riva e oggi uno dei principali imputati nei tanti processi per l’inquinamento della fabbrica. “L’Ilva oggi è pericolosa per gli operai, una fabbrica in quelle condizioni deve smettere di produrre”, spiega Giuse Alemanno, scrittore ed ex operaio Ilva: lui ha scelto l’incentivo e ha chiuso per sempre quel capitolo della sua vita. Oggi è uno dei sostenitori di Pecoraro, ma sogna un cambiamento netto per la sua città. “I giovani, soprattutto quelli in una fascia d’età produttiva sono andati via da Manduria: l’età media è alta e questo è un problema grave. La situazione è terribilmente contraddittoria. La nostra comunità paga a caro prezzo il disordine istituzionale che diventa danno sociale”.

Già, perché Manduria negli ultimi anni è balzata agli onori della cronaca nazionale per il caso degli “orfanelli”, la gang di minorenni che ha torturato l’anziano Antonio Staino, morto qualche giorno dopo a causa dei traumi psicologici subiti durante quelle umilianti spedizioni punitive. “Lo scioglimento del consiglio comunale per mafia – aggiunge Alemanno – lascia supporre che l’influenza della criminalità organizzata sia fortissima, ma la realtà cittadina è diversa. La Sacra corona unita influenza un numero esiguo di persone, ma ha conseguenza su tutta città: pensare a Manduria come città mafiosa è sbagliato, è una città sana, con una storia ultra millenaria e una dignità che va difesa da questo approccio nonostante le oggettive difficoltà sociali venute a galla”.

In questo clima, quindi, dovranno confrontarsi i due candidati dei partiti che a Roma, insieme, governano l’Italia. Il centrodestra, con il candidato Lorenzo Bullo, non ha sfondato: nonostante il comizio di Matteo Salvini di fronte a una piazza gremita, i sovranisti sono rimasti al palo. Il commercialista Gregorio Pecoraro, sostenuto da 5stelle e liste civiche di centrosinistra, non è nuovo alla politica, anzi: proprio a Manduria è già stato sindaco più di 15 anni fa. I grillini, insomma, non hanno avuto remore a puntare su chi aveva già vestito in passato altre casacche. Nessun accordo con il Pd, però, che ha scelto come candidato primo cittadino l’avvocato Domenico Sammarco, responsabile per anni della locale Proloco e a cui anche Alemanno riconosce un grande impegno per il territorio. Il futuro di questa piccola terra martoriata, quindi, dovrà essere scritta da una delle due forze di governo: l’accordo per il momento appare un’ipotesi lontana. “Alleanze? Io penso che solo imbecilli non trovino punti di contatto – aggiunge lo scrittore operaio – e tra persone ragionevoli si può scegliere di condividere un obiettivo e le risorse per raggiungerlo. Ora però c’è una contrapposizione e sarei presuntuoso a ipotizzare scenari futuri. Quello che so è che c’è bisogno di gente che si sacrifichi. Non è retorica, davvero: qua sta stiamo veramente inguaiati”.

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Regionali, Emiliano: “Solo 8 donne elette? Faremo giunta paritaria. Lopalco assessore Sanità”. E manda un messaggio a Di Battista

Solo 8 donne su 50 elette nel consiglio regionale pugliese? Non avete idea della fatica che ho dovuto fare, perché gli uomini si proteggono dalle donne in tutti i settori, soprattutto nei luoghi importanti, e tentano di tenerle ai margini. Tuttavia, grazie alle 8 donne elette, faremo una giunta di 5 uomini e di 5 donne“. Lo annuncia ai microfoni di “24 Mattino”, su Radio24, dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che spiega: “Ho dovuto convincere il presidente del Consiglio e il ministro Boccia a esercitare i poteri sostitutivi dell’articolo 120 della Costituzione per la prima volta nella storia d’Italia per introdurre nella legge elettorale pugliese la doppia preferenza, una cosa che c’è dappertutto ma che, invece, i consiglieri della vecchia legislatura non volevano. Erano tutti d’accordo, pensavano davvero di tener fuori le donne. In qualche caso, purtroppo, la doppia preferenza di genere non è stata usata per promuovere le donne, ma per favorire ulteriormente gli uomini dominanti”.

Emiliano commenta poi la vittoria elettorale dell’epidemiologo Pierluigi Lopalco, confermando la sua prossima nomina ad assessore regionale alla Sanità: “Ha avuto un successo elettorale strepitoso con 14mila voti. Credo che non si sia mai candidato in vita sua, neppure quando andava a scuola. Il suo risultato è dipeso molto dal gruppo, nel senso che lui rappresentava il successo della gestione dell’emergenza covid in Puglia, che non è stata così semplice, come qualcuno racconta. Abbiamo avuto più di 5mila contagiati e più di 500 morti. Con la chiusura della Lombardia – spiega – che è una Puglia bis perché è strapiena di pugliesi, qui sono arrivati centinaia di migliaia di pugliesi. Così abbiamo inventato la famosa ordinanza della quarantena che non esisteva prima. In questo modo abbiamo avuto la possibilità di registrare 200 focolai che, se non presi in tempo, avrebbero incendiato la Regione. Questa ordinanza è stata poi copiata da tutte le altre Regioni. Abbiamo salvato il Sud perché all’epoca non saremmo riusciti a fare tamponi, che, al massimo, potevamo fare in numero pari a 200 giornalieri”.

Il presidente pugliese si dichiara favorevole al Mes (“Dopo il lockdown sono finiti miseramente tutti i sovranismi e gli anti-europeismi. Come nel film ‘Avatar’, dipendiamo tutti dagli altri”). E si pronuncia su Alessandro Di Battista: “Le sue parole prima delle elezioni hanno sortito l’effetto contrario, nel senso che non c’è stato neppure il voto disgiunto, ma il voto diretto alla mia coalizione, il che è peggio. Alessandro è una forza della natura, ma, siccome appartengo a una generazione più antica della sua, mi piacerebbe che la sua energia fosse incanalata in maniera corretta e giusta. E vorrei che lui, prima di dare giudizi sulla mia vita, si facesse con me una chiacchierata con calma e, se possibile, rivedesse i suoi stessi giudizi morali sul sottoscritto, giudizi che mi hanno fatto del male“.

Commento finale di Emiliano sulla strategia elettorale del M5s pugliese e nazionale: “I Cinque Stelle in Puglia sono fortissimi. La loro idea, dal punto di vista della tattica elettorale, non era del tutto fuori senso, perché loro dicevano che, alleandosi con me, avrebbero rischiato di perdere la loro identità. Ma credo che abbiano sbagliato, perché ci sono anche i simboli che contano. Ricordo che Renzi e Calenda mi hanno accusato di essere un antesignano del M5s, cosa non vera. Quindi, poter vincere insieme in una Regione con un candidato che addirittura aveva contro i renziani che lo accusavano di ‘protogrillismo’ avrebbe creato un effetto molto positivo sul Paese e sul governo. Il M5s è finito? – chiosa – No, purché si diano una calmata. Devono capire che nella vita ci possano essere alti e bassi e che è normale che un contenitore possa avere al suo interno persone sbagliate, perché, come ho sempre detto, l’uomo è un legno storto e va raddrizzato ogni mattina. Non c’è nessun contenitore sterile dal punto di vista etico. Loro devono smettere di pensare di essere gli unici onesti e bravi nel mondo e devono scendere sulla Terra. I 5 Stelle hanno grandi valori che non possono essere buttati via“.

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M5s, il primo atto degli Stati generali? Individuare le patacche e non scambiarle più per pietre preziose

Vuoi essere pietra preziosa? Dimostramelo con i fatti. I Cinquestelle, giovanotti e giovanotte, furono inondati dai voti degli italiani, allagati da tributi e preferenze fino alla gola. Ne avemmo dimostrazione già nel 2013, sette anni fa, ancor prima dell’exploit che avrebbe portato il Movimento ad essere il simbolo più votato (più amato non so) dagli italiani. Una famigliola di Latina, mamma e figlio, divennero contemporaneamente, per il mistero glorioso di un suffragio a cascata, senatrice e deputato. Loro furono incolpevoli. Non fecero assolutamente nulla per ritrovarsi bis-eletti. Fu tutta opera degli elettori. Passarono però solo alcuni mesi e quella mamma e quel figliolo si dileguarono.

Rievoco questa piccola storiella triste perché, adesso che Alessandro Di Battista tuona e giustamente si allarma per l’ecatombe incombente, è utile ricordargli che nel tempo tante pietre preziose si sono dimostrate invece patacche.

E se il buongiorno si vede dal mattino, qual è stato il saluto pentastellato nel mattino seguente all’elezione? La renitenza di tanti eletti, di troppi eletti, ad assolvere all’obbligo assunto di incassare solo una parte dell’indennità parlamentare. Malgrado fossero tutti alla prima elezione, provenissero in maggioranza da un mondo del lavoro sottopagato, se non sfruttato, e alcuni di essi fossero addirittura disoccupati. Quella triste età degli scontrini, l’unico segno di vitalità di un Movimento che doveva trasformare la politica, fu la dimostrazione che troppe pietre preziose si dimostravano, alla prima prova, delle enormi patacche. E proprio sui soldi, la merce putrefatta della politica da abbattere, il Movimento perse il più caro dei suoi tesori: la reputazione, la credibilità. E quel falansterio di ribellismi, che poteva in qualche modo rappresentare il monte dei pegni della protesta popolare, si è andato trasformando, in ragione di una cooptazione casuale, alcune volte cervellotica, altre purtroppo semplicemente familistica, in un’ammucchiata di diversi ciascuno dei quali con un proprio orizzonte e un personalissimo lifestyle.

Se finalmente riusciranno ad inaugurare questi Stati generali, cioè a vedersi tutti sotto un tendone, e a parlarsi e anche a contarsi, provvedano come primo atto a individuare le patacche e a non scambiarle più per pietre preziose.

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Referendum, effetto boomerang per il fronte del No: il M5S e il governo ne escono rafforzati

Il giorno dopo il voto, stando esclusivamente ai numeri, quello che conta è che il Sì al taglio dei parlamentari ha ottenuto il 69,64%, che la partecipazione finale è al voto è stata del 53,8% e che non è stata disomogenea a livello nazionale né al traino del voto amministrativo, come aveva paventato e denunciato il fronte del No nel conflitto di attribuzione sollevato dinanzi alla Consulta (e puntualmente respinto) per affossare l’election day.

Il referendum confermativo non solo ha decretato una nettissima affermazione del Sì ed un evidentissimo ridimensionamento della cosiddetta rimonta del No, auspicata e gonfiata dalla propaganda a testate unificate della stampa nazionale e dai contorsionismi trasversali ed indecorosi della politica terrorizzata dalla riduzione degli scranni che aveva votato quasi all’unanimità, ma ha anche superato brillantemente la soglia del 50% più 1 non richiesta dalla Carta Costituzionale.

I feroci detrattori della riforma per inficiare la vittoria del Sì non possono nemmeno attaccarsi all’appiglio, in verità abbastanza inconsistente, di un esito derivato da un numero esiguo di partecipanti: lo aveva fatto tra gli altri, a ridosso del voto, persino un ex ministro della Giustizia nonché già presidente della Corte Costituzionale come Giovanni Maria Flick, invocando l’assoluta necessità e urgenza di una riforma costituzionale per l’introduzione del quorum al referendum confermativo.

Incredibilmente e con sprezzo della verità l’eufemisticamente variopinto fronte del No, e purtroppo in particolare da sinistra, per giustificare le ragioni artificiose e spesso ipocrite della strenua opposizione ad una riforma minimale di semplice adeguamento del numero degli eletti ad esigenze di allineamento agli altri paesi europei e di elementare funzionalità, è persino arrivato a paragonarla allo stravolgimento tentato da Renzi nel 2016, sottacendo “il dettaglio” che a fronte del ritocco dei due articoli della riforma attuale quella renziana prevedeva la riscrittura di ben 45 articoli e la soppressione del Senato ridotto a “camera delle regioni”.

In realtà, in termini strettamente politici, qualcosa di analogo a quanto accaduto nel 2016 – ma a parti inverse e con esiti diametralmente opposti – si è verificato anche in questa singolare campagna referendaria in cui le carte sono state mischiate molto spesso in malafede.

Se allora a fare del referendum costituzionale un plebiscito sulla sua persona e la sua leadership piegandolo ai suoi interessi contingenti era stato Matteo Renzi, ora ad imporlo al paese e a strumentalizzarlo con ogni mezzo per assestare un colpo mortale al M5S e indebolire irreversibilmente il governo Conte ha provveduto l’eterogenea compagine del No, mossa da motivazioni deboli o inconsistenti sul piano costituzionale ma forti ed univoche pur se apparentemente inconciliabili su quello politico: l’annientamento del M5S.

Non può essere sfuggita la singolare convergenza per il No che ha accomunato personaggi apparentemente agli antipodi della scena pubblica e che hanno fatto della campagna referendaria una resa dei conti definitiva con il M5S e con Luigi Di Maio in particolare.

C’è stata un sorta di idem sentire che ha contraddistinto le Sardine e Saviano, scaduti rispettivamente in banalità desolanti e volgarità gratuite, mossi da un’avversione viscerale e irrefrenabile contro i pentastellati “intrisi di una cultura autoritaria e xenofoba”, così come i vari signori dei giornali e padroni del vapore di ogni parrocchia partitica, che insieme ai numerosi navigatori di lungo corso della politica dai molteplici cambi casacca si sentono tuttora minacciati dall’esistenza del M5S in vista del mantenimento di un potere che non ammettono possa essere scalfito.

E quando in pressoché totale solitudine al M5S e a Di Maio è toccato responsabilmente e coerentemente metterci la faccia e scendere nelle piazze per spiegare le ragioni del Sì condivise apparentemente in Parlamento nell’ultimo passaggio da tutti i partiti, è scattata paradossalmente nei suoi confronti l’accusa di voler personalizzare il referendum. Ma la stragrande maggioranza dei votanti non ha abboccato.

Il risultato finale è che il varo di una riforma di buon senso che raccoglieva istanze e proposte trasversali e condivise a parole da tutto quello che nella Prima repubblica si definiva l’arco costituzionale e su cui nessuna forza politica poteva issare la bandiera è obiettivamente diventato una incontestabile vittoria del M5S, e ha ottenuto il consenso di milioni di cittadini che l’aspettavano da anni e hanno anche avuto modo di rendersi conto del tasso di credibilità, affidabilità e coerenza dei loro partiti di riferimento.

Quanto agli effetti collaterali: Conte che si è espresso chiaramente e ripetutamente per il Sì ne esce rafforzato, il governo stabilizzato e i troppi becchini pronti per le esequie del M5S devono quanto meno attendere gli ormai (speriamo) prossimi Stati generali.

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